Indice e abstract dei contributi

Thaumàzein
Volume 12, Issue 1, 2024

Table of Contents

Henri Bergson. L’evoluzione creatrice e la filosofia della vita

Henri Bergson. Creative evolution and philosophy of life

The publication of Henri Bergson’s L’Évolution créatrice in 1907 marked a pivotal moment in cultural history. The work was an immediate and overwhelming success, transcending the boundaries of academic philosophy and propelling Bergson to widespread fame. The title itself, placing the concepts of “evolution” and “creation” side by side, signalled Bergson’s departure from both traditional metaphysics – fixated on an abstract and unchanging ideal being – and prevailing evolutionary theories, which emphasised predetermined adaptation. For Bergson, “creation” remains in stark contrast to mere “fabrication”. The latter presupposes the existence of pre-constituted data of reality that are subsequently composed on the basis of norms that are also pre-constituted. By contrast, creation implies that nothing is ever already given: not even the possible, if understood – in the manner of Aristotle, Bergson’s great polemical target – as something already destined for the act. So much so that, instead of “possible”, Bergson uses the term “virtual”, a term that alludes to a dimension that never exists and yet is the only place from which a real is born, and with it the possible that will be retrospectively assigned to it. L’Évolution créatrice opened up a radically new perspective that we can only fully grasp today with advances such as those achieved by neo-evolutionism. Hence the idea of devoting this issue to this work.

La pubblicazione de L’Évolution créatrice di Henri Bergson nel 1907 ha segnato un momento cruciale nella storia della cultura. L’opera ebbe un successo immediato e travolgente, trascendendo i confini della filosofia accademica e proiettando Bergson verso un’ampia notorietà. Il titolo stesso, che affianca i concetti di “evoluzione” e “creazione”, segnala l’allontanamento di Bergson sia dalla metafisica tradizionale – fissata su un essere ideale astratto e immutabile – sia dalle teorie evoluzionistiche prevalenti, che enfatizzano l’adattamento predeterminato. Per Bergson, la “creazione” rimane in netto contrasto con la semplice “fabbricazione”. Quest’ultima presuppone l’esistenza di dati precostituiti di realtà che vengono successivamente composti sulla base di norme anch’esse precostituite. La creazione, invece, implica che nulla sia già dato: nemmeno il possibile, se inteso – alla maniera di Aristotele, grande bersaglio polemico di Bergson – come qualcosa di già destinato all’atto. Tanto che, al posto di “possibile”, Bergson usa il termine “virtuale”, un termine che allude a una dimensione che non esiste mai e che tuttavia è il solo posto da cui può nascere il reale; e, insieme ad esso, il possibile che gli verrà assegnato retrospettivamente. L’Évolution créatrice haaperto una prospettiva radicalmente nuova che oggi possiamo cogliere appieno solo con progressi come quelli raggiunti dal neo-evoluzionismo. Da qui l’idea di dedicare questo numero a quest’opera.

Guido Cusinato, Enrica Lisciani Petrini, Donatella Pagliacci: Introduzione: Henri Bergson. L’evoluzione creatrice e la filosofia della vita

Rocco Ronchi
The Formality of Taking Place. Evoluzione creatrice, arte e psicopatologia

Abstract

The fundamental insight of Bergsonian Creative Evolution is the “open totality”. The error of “scientific” cosmology, on the other hand, is to conceive of the totality as a given totality. It treats the whole (the universe) as if it were an isolated, closed system. In Creative Evolution, Bergson interprets the openness of the whole as a ‘tendency’ that splits into diverging lines. How, then, is the unity of the tendency to be conceived in its splitting, a unity which does not exist before the divergence, but which is the event of the divergence, which is its “taking place”? Art and psychopathology provide a ‘mediating image’ of the creativity of the Whole and introduce us to a theory of pure experience that will be the subject of a “new physics” indeterminism.

L’intuizione fondamentale dell’ Evoluzione creatrice è il “tutto aperto”. L’errore della cosmologia “scientifica” consiste invece nel concepire la totalità come data. Essa tratta il tutto (l’universo) come se fosse un sistema isolato, chiuso. Nell’Evoluzione creatrice Bergson interpreta l’apertura del tutto come una “tendenza” che si sdoppia in linee divergenti. Come pensare allora l’unità della tendenza nel suo sdoppiarsi, unità che non sussiste prima della divergenza, ma che è l’evento della divergenza, che è il suo “aver luogo”? Arte e psicopatologia forniscono una “immagine mediatrice” della creatività del tutto e ci introducono ad una teoria dell’esperienza pura che sarà l’oggetto di una “nuova fisica” indeterministica.

Federico Leoni
Entomologia, informatica, organologia

Abstract

Bergson’s thought, particularly that of Creative Evolution, will be our guide through a more contemporary question. Bergson devotes to insects some decisive pages, as do, quite interestingly, other key thinkers of the Twentieth Century. It is of the greatest interest the fact that Bergson frames these pages on insects within an overall questioning of tools, instruments, technologies. So we could reverse Bergson’s trajectory and ask: what can insects teach us about technology, and particularly about our contemporary technologies? The case of crowdsourcing will be taken as a paradigm of a certain shift that moves, in our terms, from a technological idea or practice of human tools, to an organological one.

Il pensiero di Bergson, in particolare quello dell’Evoluzione Creativa, sarà la nostra guida per attraversare una questione più contemporanea. Bergson dedica agli insetti alcune pagine decisive, così come lo fanno, in modo molto interessante, altri pensatori chiave del Novecento. È di grande interesse il fatto che Bergson inquadri queste pagine sugli insetti all’interno di un’interrogazione complessiva sugli utensili, gli strumenti, le tecnologie. Potremmo quindi invertire la traiettoria di Bergson e chiederci: cosa possono insegnarci gli insetti sulla tecnologia, e in particolare sulle nostre tecnologie contemporanee? Il caso del crowdsourcing sarà preso come paradigma di un certo spostamento che passa, nei nostri termini, da un’idea tecnologica, o una pratica di strumenti umani, a quella organologica.

Paolo Godani
Il divenire e l’idea del nulla

Abstract

The aim of this paper is twofold. On the one hand, we will give a short reading of the texts in which Bergson criticizes the idea of nothingness, in order to show that here he is trying to think Becoming without conceiving it as coming to be (from nothingness) and passing away. On the other hand, we will make a comparison between Bergson and Spinoza, in order to prove that Bergsonian argument, although it is deeply rigorous, ends up reducing Becoming to a sort of bare and therefore ineffable substance.

L’obiettivo di questo articolo è duplice. Da un lato, daremo una breve lettura dei testi in cui Bergson critica l’idea del nulla, per mostrare che qui egli cerca di pensare il Divenire senza concepirlo come un venire all’essere (dal nulla) e scomparire. Da un altro lato, faremo un confronto tra Bergson e Spinoza, per dimostrare che l’argomentazione bergsoniana, pur essendo profondamente rigorosa, finisce per ridurre il Divenire a una sorta di nuda e quindi ineffabile sostanza.

Caterina Zanfi
«The Social Underlies the Vital»: On Bergson’s Social Philosophy from Creative Evolution to The Two Sources

Abstract

Immediately after reading Creative Evolution, Georges Sorel claimed that the true place of Bergson’s philosophy was in social studies. At the time, the ancient analogy between society and the organism had ignited a debate in French sociology, wherein the Durkheim school opposed followers of Spencerism such as Espinas and Worms. Well aware of the European debate on biological sociology, and having remained cautious about addressing social issues for many years, Bergson himself only made the entanglement between the biological and the social more explicit in his 1932 work. Without following either of the two major positions of the contemporary French debate, he proposed a theory of society based on the assumptions set out in Creative Evolution. Bergson argued that «the social underlies the vital» and grounded his theory of a closed and open society on biology «in a comprehensive sense». Through a cross reading of Creative Evolution and The Two Sources of Morality and Religion, I will examine how Bergson developed his social theory in relation to his philosophy of biology, while at the same time responding to a core question of the contemporary sociological debate.

Subito dopo aver letto L’evoluzione creatrice, Georges Sorel sostenne che il vero luogo della filosofia di Bergson era negli studi sociali. All’epoca, l’antica analogia tra la società e l’organismo aveva acceso un dibattito nella sociologia francese, dove la scuola di Durkheim si opponeva ai seguaci dello spencerismo come Espinas e Worms. Ben consapevole del dibattito europeo sulla sociologia biologica, e dopo aver mantenuto per molti anni una certa cautela nell’affrontare le questioni sociali, Bergson stesso rese più esplicito l’intreccio tra il biologico e il sociale solo nella sua opera del 1932. Senza seguire nessuna delle due posizioni principali del dibattito francese del suo tempo, egli propose una teoria della società basata sui presupposti enunciati ne L’evoluzione creativa. Bergson sostiene che “il sociale è alla base del vitale” e fonda la sua teoria di una società chiusa e aperta sulla biologia “in senso comprensivo”. Attraverso una lettura incrociata de L’evoluzione creatrice e de Le due fonti della morale e della religione, esaminerò come Bergson abbia sviluppato la sua teoria sociale in relazione alla sua filosofia della biologia, rispondendo allo stesso tempo a una domanda centrale del dibattito sociologico contemporaneo.

Mathilde Tahar
La philosophie animale de Bergson. Conscience du vivant, créativité instinctive et biologie contemporaine

Abstract

The non-human animal holds a significant position in Bergson’s work. However, because it often serves to illuminate other concepts – humanity, the élan vital – few studies have delved into Bergson’s animal philosophy. However, Bergson’s conception of the animal as an instinctive but conscious being, distinct from humans but partaking, like them, in the élan vital, provides valuable philosophical tools to address contemporary challenges in ethology and evolutionary theory. The aim of this article is to analyse the paradoxical instinctive consciousness that Bergson attributes to animals, and to explore the contemporary implications of such a conception. To do this, I first examine the singular place of animals in Bergsonian philosophy in relation to humans and the élan vital, highlighting how Bergson steers clear of an anthropocentric approach. I then investigate how, through their consciousness, animals uniquely contribute to the creativity of the élan vital. This leads me to distinguish between two forms of animal consciousness in Bergson, one of which makes room for genuine non-human inventiveness. Finally, I analyse the contemporary stakes of this animal philosophy, demonstrating how Bergson’s approach allows ethology to rethink its methods and encourages a fresh consideration of the role played by non-human organisms in evolution.

L’animale non umano occupa una posizione significativa nell’opera di Bergson. Tuttavia, poiché spesso serve a illuminare altri concetti – l’umanità, l’élan vital – pochi studi hanno approfondito la filosofia animale di Bergson. Eppure la concezione di Bergson dell’animale come essere istintivo ma cosciente, distinto dagli esseri umani ma partecipe, come loro, dell’élan vital, fornisce strumenti filosofici preziosi per affrontare le sfide contemporanee dell’etologia e della teoria evolutiva. L’obiettivo di questo articolo è analizzare la paradossale coscienza istintiva che Bergson attribuisce agli animali ed esplorare le implicazioni contemporanee di tale concezione. Per fare ciò, esamino innanzitutto la posizione singolare degli animali nella filosofia bergsoniana in relazione all’uomo e all’élan vital, evidenziando come Bergson si tenga alla larga da un approccio antropocentrico. In seguito, mi occupo di come gli animali, attraverso la loro coscienza, contribuiscano in modo unico alla creatività dell’élan vital. Questo mi porta a distinguere due forme di coscienza animale in Bergson, una delle quali lascia spazio a un’autentica inventiva non umana. Infine, analizzo la posta in gioco contemporanea di questa filosofia animale, dimostrando come l’approccio di Bergson permetta all’etologia di ripensare i propri metodi e incoraggi una nuova considerazione del ruolo svolto dagli organismi non umani nell’evoluzione.

Pedro Brea
Critique of the Concept of Energy in Light of Bergson’s Philosophy of Duration

Abstract

I will diffract the genealogy of the concept of energy through Bergson’s Creative Evolution to argue that, historically, energy and its proto-concepts are grounded in spatialized notions of time. Bergson’s work not only demands that we rethink energy and its relation to time, it also allows us to see that the concept of energy as we know it depicts time and materiality as a numerical multiplicity, which effaces the differences in kind which are characteristic of energy transformations and real duration. To make this case, I first provide an analysis of Bergson’s concept of the cinematographical mechanism of thought, which splits duration into a composition of distinct states strung together by the idea of an impersonal becoming. Bergson claimed that this is the epistemological model for both ancient philosophy and modern science, meaning that it is also the epistemological ground within which energy concepts in western philosophy and science have been theorized. I then show how Bergson offers a way to overcome this model of theorizing through his method of intuition, and how these conclusions might be extended to future energy concepts. Thus, I argue that 1) Bergson’s work on duration allows us to interpret the genealogy of energy as the history of attempts to provide an account of change in terms of spatialized notions of time; 2) that his work offers a way of incorporating historicity into our understanding of energy; and 3) that thinking energy in the context of duration offers the possibility of conceptualizing energy as change itself rather than what remains constant through time.

Diffrangerò la genealogia del concetto di energia attraverso L’evoluzione Creativa di Bergson per sostenere che, storicamente, l’energia e i suoi proto-concetti sono fondati su nozioni spazializzate di tempo. L’opera di Bergson non solo ci impone di ripensare l’energia e la sua relazione con il tempo, ma ci permette anche di vedere che il concetto di energia così come lo conosciamo raffigura il tempo e la materialità come una molteplicità numerica, che annulla le differenze di genere che sono caratteristiche delle trasformazioni d’energia e della durata reale. Per fare questo, analizzo innanzitutto il concetto di Bergson di meccanismo cinematografico del pensiero, che divide la durata in una composizione di stati distinti legati dall’idea di un divenire impersonale. Bergson sostiene che questo è il modello epistemologico sia della filosofia antica che della scienza moderna, cioè è anche il fondamento epistemologico all’interno del quale sono stati teorizzati i concetti di energia nella filosofia e scienza occidentali. Mostro poi come Bergson offra un modo per superare questo modello di teorizzazione attraverso il suo metodo dell’intuizione e come queste conclusioni potrebbero essere estese ai futuri concetti di energia. Sostengo quindi che 1) il lavoro di Bergson sulla durata ci permette di interpretare la genealogia dell’energia come la storia dei tentativi di fornire un resoconto del cambiamento in termini di nozioni spazializzate del tempo; 2) che il suo lavoro offre un modo per incorporare la storicità nella nostra comprensione dell’energia; e 3) che pensare l’energia nel contesto della durata offre la possibilità di concettualizzare l’energia come cambiamento stesso piuttosto che come ciò che rimane costante nel tempo.

Alexander Nicolai Wendt
Teleogenesis. A Bergsonian View on Problem-Finding in Human and Artificial Intelligence

Abstract

To understand human intelligence, problem-solving has frequently been conceptualised as a goal-oriented mental process, in which an agent transforms the “problem space” to reach a goal-state: A hungry rat tries to obtain food and a chess player tries to win. From the standpoint of functionalism, goal-states like these are understood as image-like or propositional representations which are the subject of motivation. Due to the presupposition of a finalistic or mechanistic explanatory framework, what is rarely investigated is the origin of goal consciousness. From the point of view of such a framework, “all life is problem solving” (Karl Popper), i.e., goal consciousness derives from a minimal logical discrepancy of two representations which is a universal type of relation. Yet, this reasoning falls short on processes of discovery which require forward search of goals. Human life is not exhausted by means-ends-analyses in a deductively closed field of operations. Differently put, human problem-solving entails teleogenesis. In it, human striving emerges, a process that may post hoc be described as teleological. Integrating this primordial constitution of goals into the understanding of problem-solving requires overcoming functionalist, mechanistic, or finalist presuppositions, which is only possible when revisiting the conceptual foundations. Bergson’s philosophy of creative evolution offers a critical perspective. According to his organistic standpoint, teleogenesis is different from a logical relation between two representations. Under the condition of new foundations, it might be possible to leave the conceptual impasse of problem-solving research in the human sciences, which has lasted for several decades.

Per comprendere l’intelligenza umana, il problem solving è stato spesso concettualizzato come un processo mentale orientato all’obiettivo (goal-oriented), in cui un agente trasforma lo “problem space” per raggiungere uno stato obiettivo (goal state): Un topo affamato cerca di procurarsi il cibo e un giocatore di scacchi cerca di vincere. Dal punto di vista del funzionalismo, stati-obiettivo come questi sono intesi come rappresentazioni simili a immagini (image-like) o proposizionali che sono il soggetto di motivazione. A causa del presupposto di un quadro esplicativo finalistico o meccanicistico, ciò che raramente viene indagato è l’origine della coscienza di obiettivo (goal consciousness). Dal punto di vista di tale quadro, “tutta la vita è risoluzione di problemi” (Karl Popper), cioè la coscienza di obiettivo deriva da una minima discrepanza logica di due rappresentazioni, che è un tipo universale di relazione. Tuttavia, questo ragionamento è insufficiente nei processi di scoperta che richiedono la ricerca in avanti di obiettivi. La vita umana non si esaurisce nell’analisi mezzi-fini in un campo di operazioni deduttivamente chiuso. Per dirla diversamente, il problem solving umano comporta la teleogenesi. In essa emerge l’impegno umano, un processo che può essere descritto post hoc come teleologico. L’integrazione di questa costituzione primordiale di obiettivi nella comprensione del problem solving richiede il superamento dei presupposti funzionalisti, meccanicisti o finalisti, che è possibile solo rivedendo le basi concettuali. La filosofia dell’evoluzione creatrice di Bergson offre una prospettiva critica. Secondo il suo punto di vista organicistico, la teleogenesi è diversa da una relazione logica tra due rappresentazioni. Su queste nuove basi, potrebbe essere possibile uscire dall’impasse concettuale della ricerca di tipo problem solving nelle scienze umane, che dura da diversi decenni.

Christian Gemelli
I “geometri ridicoli”: una battaglia nei libri VI e VII della Repubblica di Platone

Abstract

The aim of this paper is to elucidate the lines of Book VII of the Republic in which Socrates and Glaucon investigate the paideutic utility of geometry. Indeed, Plato does not intend to outline some form of good geometry, but he seems to take the point of view of a critical observer, aiming to underline problematic aspects of geometric activities. To support this thesis, this paper is divided into two parts: the first part discusses the main interpretative positions on these lines; the second part intends to unmask the characters that Socrates and Glaucon laugh at in their analysis. This juxtaposition made by Plato is fundamental to understand the importance of the Platonic position regarding geometry.

L’obiettivo di questo lavoro è quello di chiarire le linee del libro VII della Repubblica in cui Socrate e Glaucone indagano sull’utilità paideutica della geometria. Platone, infatti, non intende delineare una forma di buona geometria, ma sembra assumere il punto di vista di un osservatore critico, volto a sottolineare gli aspetti problematici delle attività geometriche. Per sostenere questa tesi, il presente lavoro è diviso in due parti: la prima parte discute le principali posizioni interpretative su queste linee; la seconda parte intende smascherare i personaggi che Socrate e Glaucone deridono nella loro analisi. Questa giustapposizione fatta da Platone è fondamentale per comprendere l’importanza della posizione platonica nei confronti della geometria.

Lidia Palumbo
La nozione di “apparenza” nel Sofista di Platone

Abstract

In this paper I would like to show that the core of the Sophist is devoted to the definition of the status of appearance. When, in Sph. 257b3-4, the Stranger says that “when we say ‘not being’, we do not call something contrary to what is, but only different from being”, he refers to the not-being as ‘what is different from being’ and ‘what is different from being’ is precisely the appearance. Plato, in my view, wrote the Sophist in order to thematise a crucial issue, which in such a dialogue is problematised for the first time: being, the reality of things, does not present itself to us directly and clearly. In order to understand the reality of things, which seems evident, and instead escapes, it is necessary to chase it as one chases a prey that hides. If it is necessary to search for the being in order to catch it, it is because most of the time what we catch is not being, but appearance.

In questo articolo vorrei mostrare che il nucleo del Sofista è dedicato alla definizione dello statuto dell’apparenza. Quando, in Sph. 257b3-4, lo Straniero dice che “quando diciamo ‘non essere’, non chiamiamo qualcosa di contrario a ciò che è, ma solo diverso dall’essere”, si riferisce al non essere come “ciò che è diverso dall’essere”, e “ciò che è diverso dall’essere” è proprio l’apparenza. Platone, a mio avviso, ha scritto il Sofista per tematizzare una questione cruciale, che in tale dialogo viene problematizzata per la prima volta: l’essere, la realtà delle cose, non si presenta a noi direttamente e chiaramente. Per comprendere la realtà delle cose, che sembra evidente e invece sfugge, è necessario inseguirla come si insegue una preda che si nasconde. Se è necessario cercare l’essere per coglierlo, è perché il più delle volte ciò che cogliamo non è l’essere, ma l’apparenza.


Thaumàzein
Volume 11, Issue 2, 2023

Table of Contents

Il kairos e le arti

Kairos in ancient arts and techniques

It is a well-known fact that the concept of kairos encompasses a wide variety of meanings, ranging from “due time”, “critical situation”, “appropriate or decisive moment”, to “correct behaviour” and “skilful action”. All of these meanings point not only to the temporal, spatial and circumstantial characteristics of kairos, but also, and more importantly, to the action that is required in order to seize a favourable opportunity in a given moment. Without such action, and the ability to perform it, the kairos does not yield any advantage, thus remaining unexploited. On the other hand, without kairos no action can be successful, as even the most refined ability is by itself no guarantee for a successful outcome. In the Graeco-Roman world, kairos is therefore always linked with specific skills: in arts such as poetry, rhetoric, medicine, divination, alchemy and in a variety of techniques such as those needed in farming, warfare and sports, the successful outcome depends on the ability to grasp the kairos that is within reach at a given moment. This volume examines the different meanings of kairos as reflected in the methodologies commonly applied in the arts and techniques, showing how these help to broaden and deepen our knowledge of kairos. The chapters investigate both aspects of kairos: that relating to its objective conditions, i.e. its manifestation on certain occasions and circumstances; and that relating to its subjective conditions, i.e. the skills needed to grasp the opportune moment in which it should be utilized.

È noto che il concetto di kairos comprende un’ampia varietà di significati, che vanno da quello di “momento opportuno”, “situazione cruciale”, “momento appropriato o decisivo”, a “comportamento corretto” e “azione adeguata”. Tutti questi significati indicano non solo le caratteristiche temporali, spaziali e circostanziali del kairos, ma anche, e soprattutto, l’azione necessaria per cogliere un’opportunità favorevole in un determinato momento. Senza tale azione e senza la capacità di compierla, il kairos non produce alcun vantaggio e rimane quindi non sfruttato. D’altro canto, senza kairos nessuna azione può avere successo, poiché anche l’abilità più raffinata non è di per sé garanzia di successo. Nel mondo greco-romano, il kairos è quindi sempre legato a competenze specifiche: in arti come la poesia, la retorica, la medicina, la divinazione, l’alchimia e in una varietà di tecniche come quelle necessarie nell’agricoltura, nella guerra e nello sport, il successo dipende dalla capacità di cogliere il kairos che è realizzabile in un determinato momento. Questo volume esamina i diversi significati del kairos che trovano manifestazione nelle metodologie comunemente applicate nelle arti e nelle tecniche, mostrando come queste contribuiscano ad ampliare e approfondire la nostra conoscenza del kairos. I capitoli indagano entrambi gli aspetti del kairos: quello relativo alle sue condizioni oggettive, cioè il suo manifestarsi in determinate occasioni e circostanze, e quello relativo alle sue condizioni soggettive, ossia le capacità necessarie per cogliere il momento opportuno in cui utilizzarlo.

E. Giada Capasso & Alessandro Stavru: Introduzione: Il kairos, le arti e le tecniche

Mino Ianne
Il cibo per la cura dell’anima, la musica e le virtù per la salute del corpo: kairos e epimeleia nella dottrina pitagorica

Abstract

The Pythagoreans went beyond the traditional use of diet to cure disease, convinced, as they were, that its real importance lies in healing the soul. The Pythagorean δίαιτα essentially takes on a further meaning with respect to the properly medical notion, that is, a meaning of existential and formative nature. If it is true, in fact, that food, in its variations, is decisive for the states of health and physical illness, it is also true that it has a reflex effect on psychic states and character; the ψυχή is strongly conditioned in the determination of lifestyles, as, on the other hand, it also appeared clear to the Hippocratic doctors. In this sense, it can perhaps be hypothesized that καιρός is the conceptual hub that allowed the transition from the iron rules of the akusmata of early Pythagoreanism to the more flexible consideration of what is appropriate in different circumstances, as we find in the doctrine related by Iamblichus, dating back to Aristoxenus, and, therefore, in the Pythagoreanism of the fourth century. The first testimony in which medicine is related to music and music therapy, specifically defined as “catharsis”, that is to say a tool for healing both physical and mental illnesses, also dates back precisely to this period. Hence the importance attached by Pythagorean thought to epimeleia, care as total harmony of body and spirit. In this sense, the Pythagorean doctrine appears to be the direct antecedent of Plato’s thought on the care of the “whole”.

I Pitagorici andarono oltre l’uso tradizionale della dieta per curare le malattie, convinti come erano che la sua vera importanza risiedesse nella guarigione dell’anima. La δίαιτα pitagorica assume essenzialmente un significato ulteriore rispetto alla nozione propriamente medica, cioè un significato di natura esistenziale e formativa. Se è infatti vero che il cibo, nelle sue molteplici declinazioni, è determinante per gli stati di salute e di malattia fisica, è anche vero che esso ha un effetto che si riflette sugli stati psichici e sul carattere; la ψυχή è fortemente condizionante nella determinazione degli stili di vita, come, d’altra parte, appariva chiaro anche ai medici ippocratici. In questo senso, si può forse ipotizzare che il καιρός sia il fulcro concettuale che ha permesso il passaggio dalle regole ferree degli akusmata del primo pitagorismo alla considerazione più flessibile di ciò che è appropriato nelle diverse circostanze, come troviamo nella dottrina legata a Giamblico, risalente ad Aristosseno, e, quindi, nel pitagorismo del IV secolo. Risale proprio a questo periodo anche la prima attestazione della relazione posta tra la medicina e la musica e la musicoterapia, definita specificamente come “catarsi”, cioè strumento di guarigione di malattie sia fisiche che mentali. Da qui l’importanza attribuita dal pensiero pitagorico all’epimeleia, la cura come armonia totale di corpo e spirito. In questo senso, la dottrina pitagorica sembra essere l’antecedente diretto del pensiero di Platone sulla cura del “tutto”.

Ana Rita Figueira
A study on kairos. Exekias’s Amphora Depicting Achilles Slaying Penthesileia (VI cent. BC)

Abstract

Even though many specialized studies have contributed to the conceptual framework of kairos, there has been very little research dealing with this notion in ancient arts. Observing this gap, principally in what concerns Greek pottery, the author explores Exekias’s pictorial rendition of Achilles slaying Penthesileia in a black figure amphora dating from VI BC, in order to draw attention to the hermeneutical possibilities arising from a comparatist approach interested in the interaction between words and images. Specifically, the author proposes that vase figurations contribute to rethink kairos, principally in what concerns the chain of meaning generated by the association of pictorial materials and ancient philosophy, including key-terms from early Hippocratic medicine, such as that of krisis.

Sebbene molti studi specialistici abbiano contribuito al quadro concettuale del kairos, le ricerche che si sono occupate di questa nozione nelle arti antiche sono state molto poche. Alla luce di questa lacuna, soprattutto per quanto riguarda la ceramica greca, l’autore esplora la rappresentazione pittorica di Achille che uccide Pentesilea compiuta da Exekias in un’anfora a figure nere del VI a.C., con lo scopo di richiamare l’attenzione sulle possibilità ermeneutiche derivanti da un approccio comparatistico interessato all’interazione tra parole e immagini. In particolare, l’autrice suggerisce che le raffigurazioni sui vasi contribuiscano a ripensare il kairos, soprattutto per quanto riguarda la catena di significati generata dall’associazione di materiali pittorici e filosofia antica, compresi termini-chiave della prima medicina ippocratica, come quello di krisis.

Federica Piangerelli
Il perturbante e la crisi. Il ruolo dell’apparenza e del kairos nelle Supplici di Eschilo

Abstract

This paper aims to reflect on the polyvocal notions of “appearance” and “kairos”, framing them in an unprecedent field of investigation: the relations between foreigners. In fact, the analysis focuses on some central passages of Aeschylus’ Suppliants, the paradigmatic “drama of hospitality”. A first scenario reflects on the uncanny nature of the Danaids: they are barbarians, in appearance, behaviour and forma mentis, but also Greek, due to their genealogy common to the Argives. The analysis aims to prove that this double identity explains the “prism of the appearance”. Like a reflecting surface, the phenomenal sphere reveals and refracts: it is not illusory, because it shows a “visual truth”, but it is not exhaustive, because it transmits a partial image, which must be integrated with a “narrative truth”. A second scenario, indeed, investigates the crisis experienced by Pelasgus, king of Argos, related to the necessity to decide about the fate of the Danaids: hospitality or rejection? But the king faces this situation with responsibility because he recognizes the sacrality of the moment he lives. The exam intends to show that Pelasgus’ anguish explains the “dynamic stability of the kairos”. This exceptional time, on the one hand, proves to be a “stable point”, because it blocks the consequentiality of events; on the other, it is a “dynamic moment”, because it is a crossroads of opposing possibilities. But only after a critical examination of all the hypotheses, Pelasgus chooses to act as he should: welcoming the Suppliants, honouring the divine law of hospitality.

Il presente lavoro si propone di riflettere sulle nozioni polivoche di “apparenza” e “kairos”, inquadrandole in un inedito ambito di ricerca: le relazioni tra stranieri. L’analisi si concentra infatti su alcuni passaggi centrali delle Supplici di Eschilo, il paradigmatico “dramma dell’ospitalità”. Un primo scenario riflette sulla natura inquietante delle Danaidi: sono barbare, nell’aspetto, nel comportamento e nella forma mentis, ma anche greche, per la loro genealogia comune agli Argivi. L’analisi intende dimostrare che questa doppia identità spiega il “prisma dell’apparenza”. Come una superficie riflettente, la sfera fenomenica rivela e rifrange: non è illusoria, perché mostra una “verità visiva”, ma non è esaustiva, perché trasmette un’immagine parziale, che deve essere integrata con una “verità narrativa”. Un secondo scenario indaga infatti la crisi vissuta da Pelasgo, re di Argo, legata alla necessità di decidere sul destino delle Danaidi: ospitalità o rifiuto? Il re affronta questa situazione con responsabilità, perché riconosce la sacralità del momento che vive. L’esame intende mostrare che l’angoscia di Pelasgo spiega la “stabilità dinamica del kairos”. Questo tempo eccezionale, da un lato, si rivela un “punto stabile”, perché blocca la consequenzialità degli eventi; dall’altro lato, è un “momento dinamico”, perché è un crocevia di possibilità opposte. Ma solo dopo aver vagliato criticamente tutte le ipotesi, Pelasgo sceglie di agire come dovrebbe: accogliendo le Supplici, onorando la legge divina dell’ospitalità.

Francesca Eustacchi
«Dio onora talvolta l’opportunità dell’inganno» (Dissoi Logoi 3.12) L’intreccio tra kairos e inganno in dialogo con Gorgia e Platone

Abstract

This essay explores the semantic richness and practical applications of two concepts: kairos and deceit, through a meticulous analysis of their various manifestations. Regarding the notion of deceit, we will delve into the concepts of falsehood, error and fascination. As for the concept of kairos, we will emphasize its connection to the ideas of opportunity and appropriateness in both practices and behaviours. This research primarily focuses on Sophistic and Platonic texts, which provide valuable material for reflection. These texts enable us to clarify the meaning and theoretical utility of each concept under examination and to explore their intriguing and interconnected relationship. The interplay between kairos and deceit manifests in diverse realms such as ethics, rhetoric and art, aiming to enhance the effectiveness of praxis at every level of consideration.

Questo saggio esplora la ricchezza semantica e le applicazioni pratiche di due concetti: kairos e inganno, attraverso una dettagliata analisi delle loro varie manifestazioni. Per quanto riguarda la nozione di inganno, approfondiremo i concetti di falsità, errore e fascinazione. Per quanto riguarda il concetto di kairos, sottolineeremo la sua connessione con le idee di opportunità e appropriatezza sia nelle pratiche che nei comportamenti. Questa ricerca si concentra principalmente sui testi sofistici e platonici, che forniscono un prezioso materiale di riflessione. Questi testi ci permettono di chiarire il significato e l’utilità teoretica di ciascun concetto in esame e di esplorare il loro fecondo e stretto rapporto. L’interazione tra kairos e inganno si manifesta in ambiti diversi come l’etica, la retorica e l’arte, con l’obiettivo di migliorare l’efficacia della prassi a ogni livello di considerazione.

Silvia Gastaldi
Il discorso e l’occasione: il kairos nella retorica greca tra il V e il IV secolo a.C.

Abstract

This article analyses the role of the kairos in Greek rhetoric between the 5th and 4th centuries BC. The kairos is a complex and elusive notion. It is first and foremost the right time to deliver a speech, but the term also indicates the appropriateness of the arrangement of a speech and its brilliant style, which is achieved through the careful search for words, choosing them for their phonic and rhythmic pleasantness. The investigation starts with the Sophists and especially Gorgias and then analyses how the kairos is understood and used by 4th century rhetoricians such as Alcidamas, Isocrates, and Demosthenes. The survey ends with Aristotle and Plato. Aristotle, in the Rhetoric, does not explicitly formulate a theory of kairos but underlines the importance of both the choice of the appropriate time to deliver a speech and the use of proper language. Finally, the paper analyses the concept of rhetoric as psychagogy in Plato’s Phaedrus: in his theory of philosophical rhetoric, the kairos indicates the right time and also the best ways with which discourse addresses different types of souls to direct them to virtue.

Questo articolo analizza il ruolo del kairos nella retorica greca tra il V e il IV secolo a.C. Il kairos è una nozione complessa e sfuggente. È innanzitutto il momento giusto per pronunciare un discorso, ma il termine indica anche l’appropriatezza della disposizione di un discorso e il suo stile brillante, che si ottiene attraverso l’attenta ricerca delle parole, scegliendole per la loro gradevolezza fonica e ritmica. L’indagine parte dai Sofisti e soprattutto da Gorgia, per poi analizzare come il kairos viene inteso e utilizzato da retori del IV secolo come Alcidamante, Isocrate e Demostene. L’indagine si conclude con Aristotele e Platone. Aristotele, nella Retorica, non formula esplicitamente una teoria del kairos, ma sottolinea l’importanza sia della scelta del momento opportuno per pronunciare un discorso sia dell’uso di un linguaggio appropriato. Infine, l’articolo analizza il concetto di retorica come psicagogia nel Fedro di Platone: nella sua teoria della retorica filosofica, il kairos indica il momento giusto e anche i modi migliori con cui il discorso si rivolge a diversi tipi di anime per indirizzarle alla virtù.

Linda M. Napolitano
Diaskopèin e mythologhèin: Platone e il tempo e oggetto di ciò ch’è un bel rischio credere

Abstract

Recent reflection on uncertainty overlooks and even misunderstands Plato’s thought. Faced with a complex world, he definitely admits the presence of kairòs, whose literary and iconographic images are already established. He forces the arts (tèchnai) to grasp it by calculating not only external measures of objects, but also those «pertaining to the essence of generation» (Pol. 283d). Seizing this ‘right moment’ is even more complicated in the interpersonal relationships and goes back to the care (epimèleia) of oneself and of others. According to the intense words of Socrates before his death in the Phaedo (61d, 114d), reasoning together (diaskopèin) is not enough: also an ability is always requested from us to tell our own story (mythologhèin) and to welcome those of others as well. Only this way we can run the risk, time by time, of believing the truth, feeling the good, judging and acting the right.

La recente riflessione sull’incertezza trascura e addirittura fraintende il pensiero di Platone. Di fronte a un mondo complesso, egli ammette definitivamente la presenza del kairòs, le cui immagini letterarie e iconografiche sono già consolidate. Egli costringe le arti (tèchnai) a coglierlo calcolando non solo le misure esterne degli oggetti, ma anche quelle «attinenti all’essenza della generazione» (Pol. 283d). Cogliere questo “momento giusto” è ancora più complicato nelle relazioni interpersonali e rimanda alla cura (epimèleia) di sé e degli altri. Secondo le intense parole pronunciate da Socrate prima di morire nel Fedone (61d, 114d), non basta ragionare insieme (diaskopèin): ci viene sempre richiesta anche la capacità di raccontare la nostra storia (mythologhèin) e di accogliere anche quella degli altri. Solo così possiamo correre il rischio, di volta in volta, di credere alla verità, di sentire il bene, di giudicare e di fare la cosa giusta.

Anna Motta
La didattica del gnothi kairon secondo alcuni maestri di platonismo imperiale e tardo-antico

Abstract

The aim of this paper is to address the question of kairos from both a biographical and a didactic perspective, by focusing on some texts of the Platonist tradition in which the term kairos does not appear, yet traces of both its situational and formal meanings can be found. More specifically, I would like to show that when the Platonists present Plato as the culmination of the history of philosophy, they are inclined to identify the formative (or even situational) kairos for Plato in his encounter with Socrates. This encounter appears essential to enable the metaphysical flight of Plato’s thought, and represents the moment when philosophy becomes a medicine for the soul.

L’obiettivo di questo lavoro è quello di affrontare la questione del kairos da una prospettiva sia biografica che didattica, concentrandosi su alcuni testi della tradizione platonica in cui il termine kairos non compare, ma in cui si possono trovare tracce del suo significato sia situazionale che formale. In particolare, vorrei mostrare che quando i platonici presentano Platone come il culmine della storia della filosofia, sono portati a identificare il kairos formativo (o addirittura situazionale) di Platone nell’incontro con Socrate. Questo incontro appare essenziale per consentire il volo metafisico del pensiero di Platone e rappresenta il momento in cui la filosofia diventa una medicina per l’anima.

Joshua Werrett
The Alchemical kairos: Zosimos of Panopolis and Timely Tinctures

Abstract

For Zosimos the alchemist (c.4th C. AD), it seems that the whole of alchemy depended upon the kairos – the opportune moment, determined via katarchic astrology, when an experiment would succeed. In fact, Zosimos refers to alchemical transformations as kairikai katabaphai – colour changes achieved at the kairos – and states that they are «subject to lunar influence and the passing of time» (The Visions 10.12). This paper explores Zosimos’ understanding of kairos and its importance in his alchemical practice. Firstly, a general overview is presented of Zosimos’ use of the term and the nuances which can be gleaned from his own work and the work of those in his intellectual milieu; the second half of this paper focuses more specifically on the term kairikai katabaphai to examine what role exactly kairos may have had in Zosimos’ wider religio-philosophical beliefs and his understanding of the mechanics behind alchemical change. Ultimately, this paper concludes that alchemists seem to have regarded the kairos as having many fascinating aspects: it is a divinely-inspired, precisely calculable, repeating, transformative moment, without which alchemical success is almost impossible. Zosimos’ practice involves a complicated amalgamation of prayer, sacrifice, calculation, and technique; as this paper hopes to demonstrate, a true appreciation of the kairos is at the heart of all of this.

Per Zosimo l’alchimista (ca. IV secolo d.C.), sembra che l’intera alchimia dipendesse dal kairos – il momento opportuno, determinato tramite l’astrologia katarchica, in cui un esperimento sarebbe riuscito. Infatti, Zosimo si riferisce alle trasformazioni alchemiche come kairikai katabaphai – cambiamenti di colore ottenuti nel kairos – e afferma che esse sono «soggette all’influenza lunare e al passare del tempo» (Le visioni 10.12). Questo articolo esplora la concezione zosimiana del kairos e la sua importanza nella sua pratica alchemica. In primo luogo, viene presentata una panoramica generale circa l’uso del termine da parte di Zosimo e sulle sfumature che si possono ricavare dal suo stesso lavoro e da quello di coloro che appartenevano al suo ambiente intellettuale; la seconda metà del presente lavoro si concentra più specificamente sul termine kairikai katabaphai per esaminare quale ruolo il kairos possa aver esattamente avuto nelle più ampie credenze religioso-filosofiche di Zosimo e nella sua comprensione dei meccanismi alla base del cambiamento alchemico. Da ultimo, il presente lavoro conclude che gli alchimisti sembrano aver considerato il kairos come caratterizzato damolti aspetti affascinanti: si tratta di un momento trasformativo divinamente ispirato, precisamente calcolabile e ripetibile, senza il quale il successo alchemico è quasi impossibile. La pratica di Zosimo comporta un complicato amalgama di preghiera, sacrificio, calcolo e tecnica; come questo articolo spera di dimostrare, al centro di tutto ciò vi è un vero apprezzamento del kairos.

Carmine Marcacci
Una riflessione sul Mitsein: da Heidegger a Jean-Luc Nancy

Abstract

This article focuses on the fundamental background of the Mitsein ontology. The first part of the essay is specifically devoted to those paragraphs of Sein und Zeit that had been most fundamental to the development of Heidegger’s explanation of Mitsein. It highlights the premises and the consequences of Heidegger’s setting of the problem. Nancy wonders why Heidegger did not elaborate on the description of Mitsein, even if he always underlined the co-originariness of Dasein and Mitsein. Hence, the first operation made by Nancy was to rethink the Mitsein as the heart of Being and its modalization. For this reason, the second part of the article focuses on Nancy’s reading of Heideggerian Mitsein and Mitdasein, in L’être-avec de l’être-là and L’«éthique originaire» de Heidegger. In these works, Nancy further highlights the relationship between ethics and ontology, which Heidegger’s Über den «Humanismus» had already addressed. Nancy, as Heidegger’s interpreter, points out the equivalence between original ethics and fundamental ontology. The different outcome of Heidegger’s and Nancy’s ontology, indeed, depends on the way they use the Mitsein category and on a different role that ethics plays in the thinking of these authors. In conclusion, Nancy’s reading of Heideggerian Mitsein shows, on the one hand, Nancy’s reservations towards Heidegger’s analysis and, on the other, explains the fruitfulness of Heidegger’s reflection on the theme.

Questo articolo si concentra sui presupposti fondamentali dell’ontologia del Mitsein. La prima parte del saggio è dedicata in maniera specifica a quei paragrafi di Sein und Zeit che sonostati decisivi per lo sviluppo della spiegazione heideggeriana del Mitsein. In essa vengono evidenziate le premesse e le conseguenze dell’impostazione del problema da parte di Heidegger. Nancy si chiede perché Heidegger non abbia approfondito la descrizione del Mitsein, pur avendo sempre sottolineato la co-originarietà di Dasein e Mitsein. Quindi, la prima operazione compiuta da Nancy è stata quella di ripensare il Mitsein come cuore dell’Essere e della sua modalizzazione. Per questo motivo, la seconda parte dell’articolo si concentra sulla lettura heideggeriana del Mitsein e del Mitdasein, in L’être-avec de l’être-là e L’«éthique originaire» de Heidegger. In queste opere, Nancy sottolinea ulteriormente il rapporto tra etica e ontologia, che Heidegger aveva già affrontato in Über den «Humanismus». Nancy, come interprete di Heidegger, sottolinea l’equivalenza tra etica originaria e ontologia fondamentale. Il diverso esito dell’ontologia di Heidegger e di Nancy, infatti, dipende dal modo in cui utilizzano la categoria di Mitsein e dal diverso ruolo che l’etica svolge nel pensiero di questi autori. In conclusione, la lettura di Nancy del Mitsein heideggeriano mostra, da un lato, le riserve di Nancy nei confronti dell’analisi di Heidegger e, dall’altro, spiega la fecondità della riflessione di Heidegger sul tema.

Simone Gasparoni
Il rincrescimento dell’agente di Bernard Williams: un confronto con la colpa, il rimorso e altre forme di rincrescimento

Abstract

This essay explores Bernard Williams’ notion of agent-regret, comparing it with guilt, remorse, and other forms of regret. I first highlight some features of the intentional structure of guilt (also in relation to shame) and remorse, and then proceed to the analysis of regret. I discuss several examples of regret, including Williams’ discussion of the truck driver who accidentally runs over a child. In agreement with Williams, I argue that agent-regret has a moral significance not captured by either guilt or remorse. If we generally feel guilty or remorseful for intentional actions or omissions, regret shows that we are emotionally attached even to the involuntary aspects of what we do. Agent-regret suggests that our concept of responsibility is broader than we think, and its phenomenology (as well as its potential action tendencies) may be indicative of an agent’s morality.

Questo saggio esplora la nozione di rincrescimento dell’agente di Bernard Williams, confrontandola con la colpa, il rimorso e altre forme di rimpianto. Metto prima in evidenza alcune caratteristiche della struttura intenzionale della colpa (anche in relazione alla vergogna) e del rimorso, per poi passare all’analisi del rimpianto. Discuto diversi esempi di rimpianto, tra cui l’analisi condotta da Williams del caso del camionista che investe accidentalmente un bambino. In accordo con Williams, sostengo che il rincrescimento dell’agente ha un significato morale che non viene colto né dalla colpa né dal rimorso. Se generalmente ci sentiamo in colpa o in preda al rimorso per azioni o omissioni intenzionali, il rincrescimento dimostra che siamo emotivamente legati anche agli aspetti involontari di ciò che facciamo. Il rincrescimento dell’agente suggerisce che il nostro concetto di responsabilità è più ampio di quanto pensiamo e la sua fenomenologia (così come le sue potenziali tendenze all’azione) può essere indicativa della moralità di un agente.


Thaumàzein
Volume 11, Issue 1, 2023

The real and the known

The notions of reality and knowledge are among the main topics of philosophical reflection since its Greek inception. It has become a topos in the history of Western philosophy that some sort of crucial change occurred in the early modernity and that this change marked a fundamental shift from ancient and medieval conceptions. This special issue deals with two interrelated questions. First, it addresses some aspects of how early modern thinkers are inspired by ancient sources or distance themselves from ancient conceptions. Second, it provides some insights into how the relation between ontology and epistemology dramatically changed, by giving new impulse to relevant subjects, such as the ontology of relations or of mathematics, innatism, and so forth. In order to provide a conceptual framework to these insights, we define the dynamics between reality and knowledge in terms of cohesion and rupture. A relation of cohesion between reality and knowledge implies that knowing what reality is in itself is a condition for defining knowledge in general. On the contrary, to assume a rupture between reality and knowledge means defining knowledge independently of what reality is in itself. These two stances, we argue, are represented by Plato and Kant, respectively. Thus, the two philosophers provide the boundaries of the present investigation, but our conceptual framework can be applied even beyond Kant in order to provide a guideline in our continuous dialogue with ancient philosophers.

Le nozioni di realtà e conoscenza sono tra i temi principali della riflessione filosofica fin dai suoi esordi greci. È diventato un topos nella storia della filosofia occidentale il fatto che all’inizio della modernità si sia verificato una sorta di cambiamento cruciale, che ha segnato una svolta fondamentale rispetto alle concezioni antiche e medievali. Questo numero speciale affronta due questioni interconnesse. In primo luogo, affronta alcuni aspetti del modo in cui i pensatori della prima modernità si ispirano alle fonti antiche o prendono le distanze dalle concezioni antiche. In secondo luogo, fornisce alcuni spunti su come il rapporto tra ontologia ed epistemologia sia cambiato radicalmente, dando nuovo impulso a temi rilevanti, come l’ontologia delle relazioni o della matematica, l’innatismo e così via. Per fornire un quadro concettuale a queste intuizioni, definiamo la dinamica tra realtà e conoscenza in termini di coesione e rottura. Una relazione di coesione tra realtà e conoscenza implica che sapere cosa sia la realtà in sé è una condizione per definire la conoscenza in generale. Al contrario, assumere una rottura tra realtà e conoscenza significa definire la conoscenza indipendentemente da ciò che la realtà è in sé. Queste due posizioni a nostro avviso sono rappresentate rispettivamente da Platone e da Kant. I due filosofi costituiscono quindi i confini della presente indagine, ma il nostro quadro concettuale può essere applicato anche al di là di Kant per fornire una linea guida nel nostro continuo dialogo con i filosofi antichi.

Silvia De Bianchi & Lorenzo Giovannetti: Introduction: Exploring the dynamics between ontology and epistemology

Edward C. Halper
On the principles of reality

Abstract

This paper proposes a framework through which to understand the difference between ancient and modern approaches to the principles of being and knowing, it shows how the limitations of the ancient approach led to modern approaches, and it explores some of the difficulties with modern approaches. Taking Aristotle as exemplary of the ancient approach, the paper argues, first, that he takes an individual ousia to be the unit of knowledge and being and that that allows him to locate principles within individual ousiai and, thereby, to explain what it is to be a principle. Although this Aristotelian synthesis is quite attractive, the paper argues, second, that it faces difficulties in accounting for relations between ousiai because such relations cannot properly belong to a single ousia but are, nevertheless, important for understanding the cosmos as a whole. Thomas Aquinas overcomes some of these difficulties by, as it were, strengthening the unity of the cosmos to allow the reality of proportions, but he retains ousiai as fundamental units. Third, the paper argues that it was philosophers from the modern period who overcame Aristotle’s limitations by taking relations rather than ousiai to be the principles of knowledge and being. These relations are the laws of nature. However, since these laws must themselves have some sort of reality, modern philosophers then faced what the paper calls «the problem of location»: How can these principles be located in the world? What must be the nature of the world if the laws of nature belong to it? The paper shows that a number of arguments made by modern philosophers become intelligible when we see them as solutions to this problem. However, the paper proposes, in the end, that neither the ancient nor the modern approaches to principles yield adequate solutions to the questions of what it is to be a principle and what the fundamental unity of knowledge and reality is.

Questo articolo propone un quadro di riferimento attraverso il quale comprendere la differenza tra gli approcci antichi e moderni ai principi dell’essere e del conoscere, mostra come i limiti dell’approccio antico abbiano portato agli approcci moderni ed esplora alcune delle difficoltà di questi ultimi. Prendendo Aristotele come esemplare dell’approccio antico, l’articolo sostiene, in primo luogo, che egli considera l’ousia individuale come l’unità della conoscenza e dell’essere e che ciò gli permette di localizzare i principi all’interno delle singole ousiai e, quindi, di spiegare cosa significhi essere un principio. Sebbene questa sintesi aristotelica sia piuttosto attraente, l’articolo sostiene, in secondo luogo, che essa incontra delle difficoltà nel rendere conto delle relazioni tra le ousiai, perché tali relazioni non possono appartenere propriamente a una singola ousia, ma ciononostante sono importanti per comprendere il cosmo nel suo complesso. Tommaso d’Aquino supera alcune di queste difficoltà rafforzando, per così dire, l’unità del cosmo per consentire la realtà delle proporzioni, ma mantiene le ousiai come unità fondamentali. In terzo luogo, l’articolo sostiene che sono stati i filosofi dell’epoca moderna a superare i limiti di Aristotele, considerando le relazioni piuttosto che le ousiai come principi della conoscenza e dell’essere. Queste relazioni sono le leggi della natura. Tuttavia, poiché queste leggi devono avere esse stesse una qualche realtà, i filosofi moderni si sono trovati di fronte a quello che il saggio chiama «il problema della localizzazione»: Come si possono localizzare questi principi nel mondo? Quale deve essere la natura del mondo se le leggi della natura gli appartengono? Il saggio mostra che tante delle argomentazioni dei filosofi moderni diventano intelligibili se viste come soluzioni a questo problema. Tuttavia, l’articolo propone che né gli approcci antichi né quelli moderni ai principi diano soluzioni adeguate alle domande su cosa significhi essere un principio e su quale sia l’unità fondamentale della conoscenza e della realtà.

Fiona Leigh
The Wolf and the Dog: eristic, elenchus, and kinds of wisdom in Plato’s Euthydemus

Abstract

In Plato’s Sophist, the Stranger warns Theaetetus not to let the similarities between the sophist and the practitioner of the elenctic method blind him to their crucial differences, alluding to the resemblance of a wolf to a dog, «the most savage of animals to the most gentle» (231a6). All the same, Plato has the Eleatic Stranger describe the master of elenchus – the method for which Socrates was famous – as a sophist, albeit a sophist of noble birth (231b7-8), leading scholars to ask whether Plato in his later period regarded Socrates’ method as essentially sophistic, and to that extent dubious and destructive. In this paper I argue that by looking to the illustration of the elenctic and sophistic methods in the Euthydemus, we can see that in several significant respects, Plato regarded the similarities as merely apparent. In particular, I argue, the elenctic method is presented as a constructive method, which facilitates the interlocutor’s articulation and awareness of tacit beliefs about the subject under investigation. Some of these beliefs are tacit in the familiar sense that the interlocutor is already disposed to affirm their content. Other beliefs, however, are a special kind of tacit belief, in that although they follow immediately, or in a very small number of inferential steps from the interlocutor’s pre-existing, explicitly held beliefs, they are not beliefs the interlocutor is disposed to affirm at the outset of the enquiry. The elenctic method is, therefore, able to bring the interlocutor to self- knowledge concerning their own beliefs, and the relations of entailment between them, concerning the subject of inquiry.

Nel Sofista di Platone, lo Straniero avverte Teeteto di non lasciare che le somiglianze tra il sofista e il praticante del metodo elenctico lo accechino di fronte alle loro differenze cruciali, alludendo alla somiglianza tra il lupo e il cane, «il più selvaggio degli animali con il più gentile» (231a6). Tuttavia, Platone fa sì che lo Straniero Eleatico descriva il maestro dell’elenchus – il metodo per cui Socrate era famoso – come un sofista, anche se di nobili origini (231b7-8), inducendo gli studiosi a chiedersi se il tardo Platone considerasse il metodo di Socrate come essenzialmente sofistico, e in quanto tale dubbioso e distruttivo. In questo articolo sostengo che, esaminando l’illustrazione dei metodi elenctico e sofistico nell’Eutidemo, possiamo vedere che, sotto diversi aspetti significativi, Platone considerava le somiglianze solo apparenti. In particolare, sostengo che il metodo elenctico viene presentato come un metodo costruttivo, che facilita l’articolazione e la consapevolezza, da parte dell’interlocutore, di credenze tacite sul soggetto indagato. Alcune di queste credenze sono tacite nel senso familiare che l’interlocutore è già disposto ad affermarne il loro contenuto. Altre credenze, tuttavia, sono un tipo speciale di credenza tacita, in quanto, sebbene seguano immediatamente o in un numero molto ridotto di passaggi inferenziali da credenze preesistenti ed esplicitamente sostenute dall’interlocutore, non sono credenze che l’interlocutore è disposto ad affermare all’inizio dell’indagine. Il metodo elenctico è quindi in grado di portare l’interlocutore ad un’auto-conoscenza relativa alle proprie credenze, e le relazioni di implicazione tra di esse, riguardo all’oggetto dell’indagine.

Douglas A. Shepardson
Varieties of Platonic innatism: an introduction through early modern parallels

Abstract

This article considers six types of Platonic Innatism and compares them to the nativisms of early modern writers. I first dismiss a type of innatism similar to the target of the first book of Locke’s Essay concerning Human Understanding and then discuss four types of innatism that might be considered “live options” for the one Plato employs in his theory of recollection: a Kantian “constructivist” innatism, a Cartesian “dispositional” innatism, a Leibnizian “content” innatism, and a Malebranchian “transcendent” innatism. Finally, in closing, I discuss “condition innatism.” Though this last position is frequently referenced in Platonic scholarship, I argue that the position is incoherent.

Questo articolo considera sei tipi di innatismo platonico e li confronta con i nativismi dei primi scrittori moderni. Dapprima respingo un tipo di innatismo simile a quello del primo libro del Saggio sull’intelletto umano di Locke e poi discuto quattro tipi di innatismo che potrebbero essere considerati “opzioni vive” per quello che Platone impiega nella sua teoria del ricordo: un innatismo “costruttivista” kantiano, un innatismo “disposizionale” cartesiano, un innatismo “contenutistico” leibniziano e un innatismo “trascendente” malebranchiano. Infine, per concludere, parlo dell’“innatismo condizionale”. Sebbene quest’ultima posizione sia spesso citata negli studi platonici, sostengo che essa sia incoerente.

Iacopo Chiaravalli
The irony of essence: Proclus and Descartes on geometry

Abstract

The aim of this article is to question a common interpretation of Cartesian philosophy of mathematics according to which Descartes is a Platonist. Such a controversial issue is faced by contrasting Cartesian geometry with Proclus’ commentary to Book I of Euclid’s Elements, which in the 16th century was the main source for a Platonic interpretation of mathematics. Despite many apparently common aspects and concepts, we will see that Proclus’ and Descartes’ accounts are mutually irreconcilable. This is the case because the kinds of mathematics, which they are trying to philosophically explain, are completely different. Actually, Euclidean geometry is structurally based on two irreducible elements: the image and the word. Thus, Proclus is forced to articulate an epistemology that is able to account for a mathematical practice which is intrinsically divided, creating a hierarchy among its elements. On the contrary, Cartesian geometrical calculus is a unitary field where the language of proportions includes the inner duality of ancient geometry. From this basic difference we can show how distant they are on the role of the epistemic faculties in mathematics and especially on that of the imagination. This makes us possible to look differently at Descartes’ usage of Platonic conceptuality in the Fifth Meditation. Concepts like essence or form are no longer notions corresponding to different levels of being, but rather representatives of the different operations of the human mind in producing its own instruments of knowledge.

L’obiettivo di questo articolo è mettere in discussione un’interpretazione comune della filosofia cartesiana della matematica, secondo la quale Cartesio sarebbe un platonista. Tale questione controversa viene affrontata contrapponendo la geometria cartesiana al commento di Proclo al Libro I degli Elementi di Euclide, che nel XVIth secolo costituiva la principale fonte per un’interpretazione platonica della matematica. Nonostante molti aspetti e concetti apparentemente comuni, vedremo che i racconti di Proclo e di Cartesio sono reciprocamente inconciliabili. Questo perché i tipi di matematica che cercano di spiegare filosoficamente sono completamente diversi. In realtà, la geometria euclidea si basa strutturalmente su due elementi irriducibili: l’immagine e la parola. Così, Proclo è costretto ad articolare un’epistemologia che sia in grado di rendere conto di una pratica matematica che è intrinsecamente divisa, creando una gerarchia tra i suoi elementi. Al contrario, il calcolo geometrico cartesiano è un campo unitario in cui il linguaggio delle proporzioni include la dualità interna della geometria antica. A partire da questa differenza di fondo possiamo mostrare quanto siano distanti sul ruolo delle facoltà epistemiche in matematica e soprattutto su quello dell’immaginazione. Questo ci permette di guardare in modo diverso all’uso che Cartesio fa della concettualità platonica nella Quinta Meditazione. Concetti come essenza o forma non sono più nozioni corrispondenti a diversi livelli dell’essere, ma piuttosto rappresentanti delle diverse operazioni della mente umana nel produrre i propri strumenti di conoscenza.

Pablo Montosa
Upsetting an upside-down world: Bruno’s reassessment of Aristotelian infinity

Abstract

Between 1584 and 1585, during his stay in London, Bruno published six dialogues in Italian in which he expounded the bulk of his philosophy in a unitary way. Scholars unanimously agree that these six installments can be divided thematically into two distinct parts: the first three present the new cosmology and its ontological and theological principles, while the last three deal with the moral, political and ethical consequences that follow from the former. Thus, the third dialogue, On the Infinite, is the bridge where the passage from the cosmological to the moral sphere takes place. The dialogue presents itself as an open refutation of the Aristotelian finite cosmos. In it, Bruno argues that Aristotle’s main error lies in his rejection of the infinity of the universe. However, if we pay attention to the causes that Bruno deems to motivate such rejection, we will see that these ultimately coincide with the cognitive biases that lead to the assumption of moral universalism. This paper aims to prove that contrary to the established belief Bruno’s critique of morality is not a consequence of his cosmological view but rather that the latter derives from the former. That will cast new light on Bruno’s criticism of Aristotle’s moralized infinity and provide us with a firm criterion for interpreting some of the more idiosyncratic aspects of his cosmology.

Tra il 1584 e il 1585, durante il suo soggiorno a Londra, Bruno pubblicò sei dialoghi in italiano in cui espose in modo unitario la maggior parte della sua filosofia. Gli studiosi concordano unanimemente sul fatto che queste sei opere possono essere divise tematicamente in due parti distinte: le prime tre presentano la nuova cosmologia e i suoi principi ontologici e teologici, mentre le ultime tre trattano le conseguenze morali, politiche ed etiche che ne derivano. Così, il terzo dialogo, Sull’infinito, è il ponte dove avviene il passaggio dalla sfera cosmologica a quella morale. Il dialogo si presenta come un’aperta confutazione del cosmo finito aristotelico. In esso Bruno sostiene che l’errore principale di Aristotele risiede nel rifiuto dell’infinità dell’universo. Tuttavia, se prestiamo attenzione alle cause che Bruno ritiene motivino tale rifiuto, vedremo che esse coincidono in ultima analisi con i bias cognitivi che portano all’assunzione dell’universalismo morale. Questo articolo mira a dimostrare che, contrariamente a quanto si crede, la critica di Bruno alla morale non è una conseguenza della sua visione cosmologica, ma piuttosto che quest’ultima deriva dalla prima. Ciò getterà nuova luce sulla critica di Bruno all’infinito moralizzato di Aristotele e ci fornirà un criterio solido per interpretare alcuni degli aspetti più idiosincratici della sua cosmologia.

Mattia Brancato
Leibniz and the conciliarists on natural motion and the legacy of ancient philosophy

Abstract

In this paper I argue that the common narrative on 17th century science that uses the concept of scientific revolution to establish a strong distinction between ancient and modern philosophy has prevented the historiographical tradition to recognize the true role of the German syncretic philosophy, which significantly influenced Gottfried Wilhelm Leibniz in the development of his concept of natural inertia and vis viva. I argue instead that their views cannot be described as syncretic in a negative way, since their development shows the level of advancement of that debate, which was already highlighting some limits of modern mechanism.

In questo articolo sostengo che la narrazione comune sulla scienza del XVII secolo, che utilizza il concetto di rivoluzione scientifica per stabilire una forte distinzione tra filosofia antica e quella moderna, ha impedito alla tradizione storiografica di riconoscere il vero ruolo della filosofia sincretica tedesca, che influenzò significativamente Gottfried Wilhelm Leibniz nello sviluppo del suo concetto di inerzia naturale e di vis viva. Sostengo invece che le loro opinioni non possono essere descritte come sincretiche in modo negativo, poiché il loro sviluppo mostra il livello di avanzamento di quel dibattito, che stava già evidenziando alcuni limiti del meccanismo moderno.

Carolina La Padula
L’intelletto kantiano come spontaneità organica. Una riflessione analogica sul sistema dell’epigenesi della ragion pura a partire dal confronto con Tetens e Blumenbach

Abstract

This paper’s aim is to clarify Kant’s conception of understanding as spontaneity, specifically as a system of the epigenesis of pure reason, by means of a discussion of the notion of epigenesis in its original context – the theories regarding the generation, growth and development of organisms, particularly in Tetens and Blumenbach – and its analogy with the origin of the pure concepts of understanding (as well as their relationship with experience). First, I focus on the tension between a preformationist model and an epigenetic one underlying the Analytic of Concepts, tracing it back to the lively debate concerning generation in the 18th century biology. In this framework I consider the role of Johann Nikolaus Tetens, a Lockean empirical psychologist, whose Philosophische Versuche is crucial for Kant’s own development of the notion of epigenesis, although, as I argue, there is a distance between his and Kant’s meaning of the organic analogy. Finally, I examine Johann Friederich Blumenbach’s theory of Bildungstrieb and its similarity with the Kantian account of organism in the Critique of Judgement: the aim is to highlight the main features of both theories and employ them as analogical terms of comparison to reflect retrospectively upon pure understanding as a system of epigenesis.

L’obiettivo di questo articolo è quello di chiarire la concezione kantiana dell’intelletto come spontaneità, nello specifico come sistema di epigenesi della ragion pura, attraverso la discussione della nozione di epigenesi nel suo contesto originario – le teorie sulla generazione, la crescita e lo sviluppo degli organismi, in particolare in Tetens e Blumenbach – e la sua analogia con l’origine dei concetti puri di intelletto (nonché il loro rapporto con l’esperienza). In primo luogo, mi concentro sulla tensione tra un modello preformationista e quello epigenetico alla base dell’Analitica dei concetti, riconducendola al vivace dibattito sulla generazione nella biologia del XVIII secolo. In questo quadro considero il ruolo di Johann Nikolaus Tetens, uno psicologo empirico lockiano, i cui Philosophische Versuche sono cruciali per lo sviluppo della nozione di epigenesi da parte di Kant, anche se, come argomento, c’è una distanza tra il suo significato di analogia organica e quello di Kant. Infine, esamino la teoria della Bildungstrieb di Johann Friederich Blumenbach e la sua somiglianza con il racconto kantiano dell’organismo nella Critica del Giudizio: l’obiettivo è quello di evidenziare le caratteristiche principali di entrambe le teorie e di utilizzarle come termini di paragone analogici per riflettere retrospettivamente sull’intelletto pura come sistema di epigenesi.

Kirill Leshchinskii & Leonardo Massantini
Nostalgia, situated affectivity and museification

Abstract

In this article, nostalgia is studied within the contemporary theory of situated affectivity, which promises to offer new perspectives both on the nature and functions of nostalgia. We first introduce the phenomenon of nostalgia by focusing on some of its aspects relevant for the present discussion. Then, we articulate basic provisions of situated affectivity to establish a context for further analysis. In particular, we use two frameworks from situated affectivity – (1) affective niche construction and (2) mind invasion – to account for different modes of interaction between nostalgic agents and their environments, with a specific focus on the case of museification. The first framework is used to analyze how the environment can be intentionally structured by nostalgic agents: either to alleviate their nostalgia or otherwise instigate and maintain it externally. Here, a special attention is given to ways in which affective niches actively scaffold agents’ nostalgia and renarrate their past. The second framework is intended to show how the environment can exert its affective influence on nostalgic agents without their conscious awareness. Through the case of the Soviet past museification, we consider how the nostalgia of museum curators effectively leads to unforeseen historical renarrations and affects memories of (nostalgic) visitors.

In questo articolo, la nostalgia viene studiata all’interno della teoria contemporanea dell’affettività situata, che promette di offrire nuove prospettive sia sulla natura che sulle funzioni della nostalgia. Introduciamo innanzitutto il fenomeno della nostalgia concentrandoci su alcuni dei suoi aspetti rilevanti per la presente discussione. Quindi, articoliamo le disposizioni di base dell’affettività situata per stabilire un contesto per l’ulteriore analisi. In particolare, utilizziamo due schemi dell’affettività situata – (1) la costruzione di nicchie affettive e (2) l’invasione della mente – per spiegare le diverse modalità di interazione tra gli agenti nostalgici e i loro ambienti, con un’attenzione specifica al caso della museificazione. Il primo framework viene utilizzato per analizzare come l’ambiente possa essere intenzionalmente strutturato dagli agenti nostalgici: sia per alleviare la loro nostalgia, sia per istigarla e mantenerla all’esterno. In questo caso, un’attenzione particolare è rivolta ai modi in cui le nicchie affettive fanno attivamente da impalcatura alla nostalgia degli agenti e rinarrano il loro passato. Il secondo quadro intende mostrare come l’ambiente possa esercitare la sua influenza affettiva sugli agenti nostalgici senza che essi ne siano consapevoli. Attraverso il caso della museificazione del passato sovietico, consideriamo come la nostalgia dei curatori dei musei porti effettivamente a delle rinarrazioni storiche impreviste e influenzi i ricordi dei visitatori (nostalgici).


Thaumàzein
Volume 10, Issue 2, 2022

Table of Contents

Cosmologia filosofica

Philosophical cosmology

Cosmology is the science of the origins and structure of the universe. However, it derives from kosmos, which means world, and this term indicates both the universe and the earth, the celestial sphere and the sphere of human history. Cosmology in the philosophical sense must therefore consider both aspects, although it is not easy to understand their connection. Especially today, because the “universe” side is a highly specialised scientific subject, while the “earth” side is dominated by globalisation, which leads to an exclusive focus on human affairs. With globalisation, a kind of worldless wordliness has taken place. The aim of this issue is therefore to bring Weltfrage back to the centre of philosophy, through a sampling of cosmological thinking in a broad sense. Indeed, such a thinking concerns world models, but these models are not only cosmographies and more or less exact astronomical representations. They are also myths, images, metaphors, symbols, which intersect metaphysics and religion no less than ethics and politics. A world is only given within a vision, halfway between reason and imagination, as it is rooted in the primordial layers of experience while pushing towards the most daring speculations on the origin, connection and end of all things. This issue therefore presents some material for exploring the concept of the world and seeing anew the threads that bind, even in a conflicting form, heaven and earth.

La cosmologia è la scienza delle origini e della struttura dell’universo. Tuttavia, essa deriva da kosmos, che significa mondo, e questo termine indica sia l’universo che la terra, la sfera celeste e la sfera della storia umana. La cosmologia in senso filosofico deve quindi considerare entrambi gli aspetti, anche se non è facile comprenderne la connessione. Soprattutto oggi, perché il versante “universo” è una materia scientifica altamente specializzata, mentre il versante “terra” è dominato dalla globalizzazione, che porta a concentrarsi esclusivamente sulle vicende umane. Con la globalizzazione, si è verificata una sorta di parola senza mondo. L’obiettivo di questo numero è quindi quello di riportare la Weltfrage alcentro della filosofia, attraverso una campionatura del pensiero cosmologico in senso lato. In effetti, tale pensiero riguarda i modelli di mondo, ma questi modelli non sono solo cosmografie e rappresentazioni astronomiche più o meno esatte. Sono anche miti, immagini, metafore, simboli, che intersecano metafisica e religione non meno che etica e politica. Un mondo si dà solo all’interno di una visione, a metà strada tra la ragione e l’immaginazione, perché si radica negli strati primordiali dell’esperienza e si spinge verso le speculazioni più ardite sull’origine, la connessione e la fine di tutte le cose. Questo numero presenta quindi alcuni materiali per esplorare il concetto di mondo e rivedere i fili che legano, anche in forma conflittuale, cielo e terra.

Marco Russo: Introduction. Towards a philosophical cosmology

PARTE I: PROSPETTIVE ANTICHE E MODERNE

Federico Casella
Il cosmo come mezzo, il cosmo come fine: il Timeo di Platone, Empedocle e Aristotele sulla relazione tra macrocosmo e microcosmo

Abstract

The aim of this paper is to analyze the ethical relevance of the analysis of the cosmos offered by Plato in his Timaeus. In this dialogue, the study of the sensible cosmos reveals both that it depends on its noetic model and that it is a rational, ordered, perfect, and self-sufficient living being. Plato also shows how humans are closely related to the cosmos: they share the same origin and possess a similar conformation. It follows that, in order to be considered perfect, humans must imitate the characteristics of the sensible cosmos and then devote their lives to the noblest activity, the study of ideas, i.e. the intelligible cosmos. If humans abide by this way of life, their souls will reside eternally among the stars – rational divinities – after their separation from the body, and thus enjoy perpetual happiness. This paper will also consider Presocratic thought and especially Empedocles’ claim that the study of the characteristics of the cosmos and their imitation play a pivotal role in identifying the fairest human conduct. Finally, this paper will briefly examine Aristotle’s theory of teleological nature and cosmological order, so as to show any convergence or contrast between Empedocles, Plato, and Aristotle on the relationship between macrocosm and human microcosm in Archaic and Classical Greek Philosophy.

L’obiettivo di questo articolo è analizzare la rilevanza etica dell’analisi del cosmo offerta da Platone nel Timeo. In questo dialogo, lo studio del cosmo sensibile rivela sia che esso dipende dal suo modello noetico sia che è un essere vivente razionale, ordinato, perfetto e autosufficiente. Platone mostra anche come gli esseri umani siano strettamente legato al cosmo: essi condividono la stessa origine e posseggono una conformazione simile. Ne consegue che, per essere considerati perfetti, gli uomini devono imitare le caratteristiche del cosmo sensibile e quindi dedicare la loro vita all’attività più nobile, lo studio delle idee, cioè del cosmo intelligibile. Se l’uomo si attiene a questo stile di vita, dopo la separazione dal corpo la sua anima risiederà eternamente tra le stelle, divinità razionali, e godrà così di una felicità perpetua. Il saggio prenderà in considerazione anche il pensiero presocratico e in particolare l’affermazione di Empedocle secondo cui lo studio delle caratteristiche del cosmo e la loro imitazione svolgono un ruolo fondamentale nell’individuare la condotta umana più giusta. Infine, il saggio esaminerà brevemente la teoria della natura teleologica e dell’ordine cosmologico di Aristotele, in modo da mostrare eventuali convergenze o contrasti tra Empedocle, Platone e Aristotele sul rapporto tra macrocosmo e microcosmo umano nella filosofia greca arcaica e classica.

Enrico Volpe
La problematica natura onto-teologica del cosmo in Numenio di Apamea

Abstract

The metaphysical system of Numenius of Apamea is structured according to an onto-theological hierarchy, which presents three levels of reality that Numenius calls “Gods”. Even though the role of the first and the second God is of paramount importance in the metaphysics of Numenius, the third God, which is also defined “cosmos”, has a troublesome ontological status. According to Numenius, the cosmos has “dianoetic thought” since his nature derives from the “encounter” of two metaphysical principles, the demiurge, and the matter. My investigation starts from the testimony of Proclus and then it focuses on Eusebius’ Praeparatio Evangelica, in which he quotes directly some passages from the work on Numenius On the Good. My goal in this article is to show that Numenius conceives of the third God not as the cosmos in a material sense, but rather as the rational principle which rules the universe. In this respect, the discursive intellect and the divine nature of the cosmos seem to fit well together. The main question, however, concerns the possibility that Numenius understands the presence (or the identification) of the cosmos with a World Soul. My purpose is to show that even though Numenius does not define the third God explicitly as a “Soul”, its rational principle works as a Soul. Finally, I try to show that this conception of third God by Numenius lays the ground for the Plotinian concept of the Third Hypostasis.

Il sistema metafisico di Numenio di Apamea è strutturato secondo una gerarchia onto-teologica, che presenta tre livelli di realtà che Numenio chiama “Dei”. Anche se il ruolo del primo e del secondo Dio è di primaria importanza nella metafisica di Numenio, il terzo Dio, che viene anche definito “cosmo”, ha uno status ontologico problematico. Secondo Numenio, il cosmo ha un “pensiero dianoetico” poiché la sua natura deriva dall’“incontro” di due principi metafisici, il demiurgo e la materia. La mia indagine parte dalla testimonianza di Proclo e si concentra poi sulla Praeparatio Evangelica di Eusebio, in cui questi cita direttamente alcuni passi dell’opera di Numenio Sul bene. Il mio obiettivo in questo articolo è mostrare che Numenio concepisce il terzo Dio non come il cosmo in senso materiale, ma piuttosto come il principio razionale che governa l’universo. In questo senso, l’intelletto discorsivo e la natura divina del cosmo sembrano andare d’accordo. La domanda principale, tuttavia, riguarda la possibilità che Numenio intenda la presenza (o l’identificazione) del cosmo con un’anima del mondo. Il mio scopo è mostrare che, anche se Numenio non definisce esplicitamente il terzo Dio come un’“Anima”, il suo principio razionale funziona come un’Anima. Infine, cerco di mostrare che questa concezione del terzo Dio da parte di Numenio pone le basi per il concetto plotiniano di terza ipostasi.

Max Wade
Eriugena on the eternity and creation of the world

Abstract

John Scotus Eriugena devotes a substantial portion of his Periphyseon to a longstanding cosmological question of whether the cosmos is eternal or created at a moment in time. This paper explores his examination of the question in light of the broader history of cosmology, as he straddles both antiquity and the Middle Ages by trying to integrate a Platonic ontology within a particular Christian framework. As a result, Eriugena produces a highly original solution to the debate that has been hitherto neglected in the broader conversation on this question. Finally, the paper situates this within Eriugena’s broader philosophical system and its significance in relation to his methodological approach.

Giovanni Scoto Eriugena dedica una parte consistente del suo Periphyseon all’annoso interrogativo cosmologico se il cosmo sia eterno o creato in un momento del tempo. Il presente lavoro esplora il suo esame della domanda alla luce della più ampia storia della cosmologia, in quanto egli si colloca a cavallo tra l’antichità e il Medioevo, cercando di integrare l’ontologia platonica all’interno di un particolare quadro cristiano. Da ciò emerge che Eriugena produce una soluzione molto originale al dibattito, che è stata finora trascurata nella più ampia trattazione della questione. Infine, l’articolo colloca questa soluzione all’interno del più ampio sistema filosofico di Eriugena e del suo significato in relazione al suo approccio metodologico.

Antonella Del Prete
La vita divina degli astri. Cosmologia e fisica in Giordano Bruno

Abstract

The aim of this paper is to investigate Bruno’s astrobiology. The life of the stars can help us to highlight the characteristics of the infinite universe and to determine what relationship it has with God. Deeply hostile to Christianity, Bruno in fact holds that God and the world are inseparable. The ineffability of divinity can never be separated from its explication in the infinite universe. Human beings can find their place among the infinite worlds if they are able to understand that the universe is the unique nature, the true intermediary with God. Bruno enhances the capacities of the frenzied hero, without ever yielding to the temptation of anthropocentrism.

L’obiettivo di questo articolo è indagare l’astrobiologia di Bruno. La vita delle stelle può aiutarci a mettere in luce le caratteristiche dell’universo infinito e a determinare quale rapporto esso abbia con Dio. Profondamente ostile al cristianesimo, Bruno sostiene infatti che Dio e il mondo sono inseparabili. L’ineffabilità della divinità non può mai essere separata dalla sua esplicazione nell’universo infinito. Gli esseri umani possono trovare il loro posto tra gli infiniti mondi se sono in grado di comprendere che l’universo è la natura unica, il vero intermediario con Dio. Bruno esalta le capacità dell’eroe frenetico, senza mai cedere alla tentazione dell’antropocentrismo.

Sean Gaston
The concept of world and the American Revolution

Abstract

What happens to the concept of world when it is ‘put to work’ in a political event that attempts to constitute a new world? This article uses the American Revolution (1765-1791) to examine the relation between concepts of world and politics. Evoking Kant, whose writings were contemporary with the events in America, and touching on Arendt and Derrida, this essay suggests that the American Revolution relies on a concept of world that is at once geographical and ideal, limited and excessive. The variation of meanings of world in the midst of these political events, especially in the year-long constitutional debates, suggests that the attempt to create a new kind of political world also transformed the traditional concept of world itself. This is not only due to the divided sovereignty that distinguished the new republic; it is also the creation of a political structure that is always more and less than a world.

Cosa succede al concetto di mondo quando viene “messo all’opera” in un evento politico che tenta di costituire un nuovo mondo?  Questo articolo utilizza la Rivoluzione americana (1765-1791) per esaminare la relazione tra i concetti di mondo e politica.  Evocando Kant, i cui scritti erano contemporanei agli eventi americani, e toccando Arendt e Derrida, questo saggio suggerisce che la Rivoluzione americana si basa su un concetto di mondo che è allo stesso tempo geografico e ideale, limitato ed eccessivo.  La variazione dei significati di mondo nel mezzo di questi eventi politici, specialmente nei dibattiti costituzionali durati un anno, suggerisce che il tentativo di creare un nuovo tipo di mondo politico ha trasformato anche il concetto tradizionale di mondo stesso.  Ciò non è dovuto solo alla sovranità divisa che contraddistingueva la nuova repubblica, ma anche alla creazione di una struttura politica che è sempre più e meno di un mondo.

PARTE II: PROSPETTIVE CONTEMPORANEE

Giulia Schettino
The challenge of relativistic cosmology to describe the universe

Abstract

The search for a theory capable to describe the origin, the evolution and the structure of the universe is a long-standing issue. Recently, experimental cosmology has reached an astonishing accuracy. Nevertheless, a comprehensive theory of the universe has not been entirely formulated and developed thus far. Cosmology as an experimental science has to face unique challenges, due to the inaccessibility of the phenomena and processes under study and to the impossibility to reproduce them in a laboratory. These limits entail an extensive use of computer simulations, which become a fundamental tool of investigation, allowing to confront theoretical models and observations. This background arouses an intriguing philosophical debate concerning the inferential power of simulations in cosmology and their epistemic role. This paper reviews the cornerstones of relativistic cosmology and of the main alternative proposals to relativity and proposes some considerations on the contribution that philosophy of cosmology can provide to the contemporary debate in cosmology.

La ricerca di una teoria in grado di descrivere l’origine, l’evoluzione e la struttura dell’universo è una questione di lunga data. Recentemente, la cosmologia sperimentale ha raggiunto una precisione sorprendente. Tuttavia, finora non è stata formulata e sviluppata una teoria completa dell’universo. La cosmologia come scienza sperimentale deve affrontare sfide uniche, dovute all’inaccessibilità dei fenomeni e dei processi oggetto di studio e all’impossibilità di riprodurli in laboratorio. Questi limiti comportano un uso estensivo delle simulazioni al computer, che diventano uno strumento di indagine fondamentale, permettendo di confrontare modelli teorici e osservazioni. Questo contesto suscita un affascinante dibattito filosofico sul potere inferenziale delle simulazioni in cosmologia e sul loro ruolo epistemico. Questo articolo passa in rassegna i capisaldi della cosmologia relativistica e delle principali proposte alternative alla relatività e propone alcune considerazioni sul contributo che la filosofia della cosmologia può fornire al dibattito contemporaneo in cosmologia.

Luigi Laino
Il mondo locale: l’esperienza dell’osservatore fra fisica relativistica e neuroscienze

Abstract

In this paper, I have defended a transcendental interpretation of the concept of «world» in relativity theory. I have shown that despite the objectification implied by the unification of space and time (section one), subjective conditions are still relevant for the construction of spacetime. Therefore, I have tackled Weyl’s and Eddington’s interpretations of relativity in the second section. Weyl, influenced by Husserl, endorsed the vision that local reality is built via the temporal form of consciousness. Although with less famous philosophical references, Eddington peculiarly sided with idealistic trends. He defined the physical world as the description of events or objects from the standpoint of no one in particular. Therefore, world-geometry, that is, spacetime diagrams and the geometry adopted in relativity, is conceived regardless of its actualizations. However, it turned out that the mind imposes its demands (such as permanence or contiguity) on the physical world and that measurements set up particular conditions. Finally, I have tried to revise these statements in light of the contemporary debate in the philosophy of physics and neuroscience. I have shown that the world, conceived of as local reality, should be studied by combining assumptions on the nature of the mind or brain with the physical properties of signals.

In questo articolo ho difeso un’interpretazione trascendentale del concetto di “mondo” nella teoria della relatività. Ho dimostrato che, nonostante l’oggettivazione implicita nell’unificazione di spazio e tempo (prima sezione), le condizioni soggettive sono ancora rilevanti per la costruzione dello spaziotempo. Pertanto, nella seconda sezione ho affrontato le interpretazioni della relatività di Weyl e di Eddington. Weyl, influenzato da Husserl, ha sostenuto la visione secondo cui la realtà locale è costruita attraverso la forma temporale della coscienza. Anche se con riferimenti filosofici meno famosi, Eddington si schierò in modo particolare con le tendenze idealistiche. Egli definì il mondo fisico come la descrizione di eventi o oggetti dal punto di vista di nessuno in particolare. Pertanto, la geometria del mondo, cioè i diagrammi dello spaziotempo e la geometria adottata nella relatività, è concepita indipendentemente dalle sue attualizzazioni. Tuttavia, è emerso che la mente impone le proprie esigenze (come la permanenza o la contiguità) al mondo fisico e che le misurazioni creano condizioni particolari. Infine, ho cercato di riconsiderare queste affermazioni alla luce del dibattito contemporaneo in filosofia della fisica e nelle neuroscienze. Ho dimostrato che il mondo, concepito come realtà locale, dovrebbe essere studiato combinando presupposti relativi alla natura della mente o del cervello con le proprietà fisiche dei segnali.

Alain Beaulieu
The role of Poincaré’s study of the celestial mechanics in the development of Deleuze and Guattari’s chaosmological thinking

Abstract

This paper explores the way Henri Poincaré’s study of the dynamic movements of celestial bodies – which announces the theory of chaos – coheres with Deleuze and Guattari’s chaosmological thinking. The paper demonstrates how topics associated with chaos theory, including the limits of quantitative solutions, phenomena of orbital resonance, fractal attractors, and Poincaré’s conception of unsolvable problems, intermingle with Deleuze and Guattari’s philosophy. The paper supports the idea that the lines of interference between the new scientific study of chaos initiated by Poincaré, and a chaosmological thinking, are consistent within a partly undetermined universe, or chaosmos.

Questo articolo esplora il modo in cui lo studio di Henri Poincaré sui movimenti dinamici dei corpi celesti – che annuncia la teoria del caos – è coerente con il pensiero caosmologico di Deleuze e Guattari. L’articolo mostra come i temi associati alla teoria del caos, tra cui i limiti delle soluzioni quantitative, i fenomeni di risonanza orbitale, gli attrattori frattali e la concezione di Poincaré dei problemi irrisolvibili, si intrecciano con la filosofia di Deleuze e Guattari. L’articolo sostiene l’idea che le linee di interferenza tra il nuovo studio scientifico del caos iniziato da Poincaré e il pensiero caosmologico siano coerenti all’interno di un universo parzialmente indeterminato, o caosmos.

Roberto Terzi
Idea, orizzonte, totalità: verso una cosmologia fenomenologica

Abstract

The article focuses on Husserl’s phenomenology after referring to Kant’s critique of metaphysical cosmology and highlighting the potential and limits of Kant’s analysis through a reading of Fink. In particular, it analyses the fundamental concept of the horizon, through which Husserl attempts to think about the problem of the world in order to emphasise its richness and originality compared to the Kantian position. However, the Husserlian concept of the horizon also runs into substantial limitations, which prevent it from adequately accounting for the phenomenon of the world. These limitations also illustrate the problems that later phenomenologists had to deal with and the demands that a phenomenological cosmology must fulfil. The article’s last part quickly outlines the features of these phenomenological cosmologies, mainly through Patočka’s thought, according to which the world must be thought of as an original totality and as the true locus of the transcendental insofar as it is the condition of every experience and every single manifestation.

L’articolo si concentra sulla fenomenologia di Husserl dopo aver fatto riferimento alla critica di Kant alla cosmologia metafisica e aver evidenziato le potenzialità e i limiti dell’analisi kantiana attraverso una lettura di Fink. In particolare, si analizza il concetto fondamentale di orizzonte, attraverso il quale Husserl tenta di pensare il problema del mondo per sottolinearne la ricchezza e l’originalità rispetto alla posizione kantiana. Tuttavia, anche il concetto husserliano di orizzonte incorre in limiti sostanziali, che gli impediscono di rendere adeguatamente conto del fenomeno del mondo. Questi limiti illustrano anche i problemi che i fenomenologi successivi hanno dovuto affrontare e le esigenze che una cosmologia fenomenologica deve soddisfare. L’ultima parte dell’articolo delinea rapidamente le caratteristiche di queste cosmologie fenomenologiche, soprattutto attraverso il pensiero di Patočka, secondo il quale il mondo deve essere pensato come una totalità originaria e come il vero luogo del trascendentale in quanto condizione di ogni esperienza e di ogni singola manifestazione.

Karel Novotný
L’espace comme visage de la nature? En marge des cosmologies phénoménologiques

Abstract

The article focuses on the concept of space that Jan Patočka outlined by 1960 in a paper “The space and its problematic” and in a group of manuscripts connected with this paper. The article draws attention to the impact on Patočka of an idea of Max Scheler who saw a so called “emptiness of the heart” in the foundation of human experience of the space. This impact might have shaped the philosophical position of Patočka in a proximity and a distance to the Husserlian transcendental phenomenology, on the one hand, but to the philosophical cosmology of Eugen Fink as well, on the other hand. All the phenomena, everything that can appeal to us as a face, even the nature or cosmos itself, can only appear in that form of space, according to Patočka. This whole of the space remains itself invisible as a transparent medium for every appearing in the world, and it keeps us, at the same time, from a direct confrontation with a faceless periphery of our world, a periphery that remains alien to it. That is what Patočka would call a vital origin of the space, or vital space, that refers to the emptiness of the heart and to an activity of building that from this emptiness brings an order into the reality and creates a “home” in it. For the philosophical cosmology, on the contrary, our world, even if centered in homes, with its space and time, has its very origin in the movement of the cosmos itself that gives the space as well as all phenomena that we can ever face.

L’articolo si concentra sul concetto di spazio che Jan Patočka ha delineato nel 1960 in uno scritto “Lo spazio e la sua problematica” e in un gruppo di manoscritti collegati a questo scritto. L’articolo richiama l’attenzione sull’impatto che ebbe su Patočka un’idea di Max Scheler che vedeva un cosiddetto “vuoto del cuore” alla base dell’esperienza umana dello spazio. Questo impatto potrebbe aver plasmato la posizione filosofica di Patočka in prossimità e distanza rispetto alla fenomenologia trascendentale husserliana, da un lato, ma anche rispetto alla cosmologia filosofica di Eugen Fink, dall’altro. Tutti i fenomeni, tutto ciò che ci attrae come un volto, persino la natura o il cosmo stesso, possono apparire solo in quella forma di spazio, secondo Patočka. L’intero spazio rimane invisibile come mezzo trasparente per ogni apparizione nel mondo e ci impedisce, allo stesso tempo, di confrontarci direttamente con una periferia senza volto del nostro mondo, una periferia che gli rimane estranea. È ciò che Patočka chiamerebbe origine vitale dello spazio, o spazio vitale, che si riferisce al vuoto del cuore e a un’attività di costruzione che da questo vuoto porta un ordine nella realtà e crea una “casa” in essa. Per la cosmologia filosofica, invece, il nostro mondo, anche se centrato nelle case, con il suo spazio e il suo tempo, ha la sua autentica origine nel movimento stesso del cosmo che produce lo spazio e tutti i fenomeni con i quali possiamo confrontarci.

Paola Pazienti
La fine del mondo. Orizzonte e fondamento nell’ontologia indiretta di Merleau-Ponty

Abstract

Maurice Merleau-Ponty’s concept of the world could be intended, on the one hand, as a structure of horizon drawn around an individual or a social group, which can be declined into a plurality of “phenomena-of-the-world”, both real or virtual; on the other, as a primordial ground or “flesh of the world”, which re-proposes the metaphysical-theological question of the foundation. This essay attempts to provide an analysis of the dynamic of institution and sedimentation at the base of every cultural world and its exposure to the risk of “the end of the world”, as formulated by the Italian anthropologist Ernesto De Martino in his last and unfinished project about the possibility of psychopathological and cultural apocalypses. Our thesis is that Merleau-Ponty’s final phenomenological ontology, deployed in The Visible and the Invisible, receives new light from this interpretation, especially for what concerns the use of a mythical language in an indirect approach to Being.

Il concetto di mondo di Maurice Merleau-Ponty può essere inteso, da un lato, come una struttura di orizzonte disegnata intorno a un individuo o a un gruppo sociale, declinabile in una pluralità di “fenomeni-del-mondo”, reali o virtuali; dall’altro, come un terreno primordiale o “carne del mondo”, che ripropone l’interrogazione metafisico-teologica sul fondamento. Questo saggio tenta di fornire un’analisi della dinamica di istituzione e sedimentazione alla base di ogni mondo culturale e della sua esposizione al rischio della “fine del mondo”, come formulato dall’antropologo italiano Ernesto De Martino nel suo ultimo e incompiuto progetto sulla possibilità di apocalissi psicopatologiche e culturali. La nostra tesi è che la tarda ontologia fenomenologica di Merleau-Ponty, dispiegata ne Il visibile e l’invisibile, riceva nuova luce da questa interpretazione, soprattutto per quanto riguarda l’uso di un linguaggio mitico in un approccio indiretto all’Essere.

Tommaso Morawski
Regimi geoscopici. Appunti per una tecno-estetica della visione terrestre

Abstract

By re-adapting the notion of the geoscopic regime introduced by the Italian geographer Eugenio Turri to cartographic visualisation models and geographical imagination, this article aims at laying the foundations for a techno-aesthetics of terrestrial vision. An aesthetics, then, that is not a philosophy of art or a science of beauty, but a critical reflection on the performance of the human aisthesis and its natural tendency to extend itself into artefacts.

Riadattando la nozione di regime geoscopico introdotta dal geografo italiano Eugenio Turri ai modelli di visualizzazione cartografica e all’immaginario geografico, questo articolo intende porre le basi per una tecnoestetica della visione terrestre. Un’estetica, quindi, che non è una filosofia dell’arte o una scienza della bellezza, ma una riflessione critica sulle prestazioni dell’aisthesis umana e sulla sua naturale tendenza a estendersi negli artefatti.

Matteo Vegetti
L’ultima rivoluzione spaziale globale. Il mondo nell’epoca delle imprese cosmonautiche

Abstract

The article explores the concept of the “Global Spatial Revolution” introduced by Schmitt in his Land and Sea (1942) and extends its meaning to a historical and philosophical dimension that looks back to the first space enterprises. Following the cosmological implications of the first and especially of the second space revolution (the one that has air as an element, and no longer the sea), a possible way, alternative to the usual ones, to think about the persistence of modernity in the so-called ‘post-modern’ age will be discussed. Finally, in dialogue with authors such as Blumenberg, Axelos and Fuller, the genesis of a new worldview will be shown, which I propose to call “planetary thinking”, in order to distinguish it from our recent ecologism.

L’articolo esplora il concetto di “rivoluzione spaziale globale” introdotto da Schmitt nel suo Terra e mare (1942) e ne estende il significato a una dimensione storica e filosofica che guarda alle prime imprese spaziali. Seguendo le implicazioni cosmologiche della prima e soprattutto della seconda rivoluzione spaziale (quella che ha come elemento l’aria e non più il mare), si discuterà un possibile modo, alternativo a quelli consueti, di pensare la persistenza della modernità nella cosiddetta epoca “postmoderna”. Infine, in dialogo con autori come Blumenberg, Axelos e Fuller, si mostrerà la genesi di una nuova visione del mondo, che propongo di chiamare “pensiero planetario”, per distinguerla dal nostro recente ecologismo.

Anna Nutini
Come il cosmo finì per diventare abisso: horror fati e rottura rivoluzionaria nella lettura benjaminiana dell’Eternité par les astres di Blanqui

Abstract

The concept of the cosmos presents itself as an aseptic construct when used in the scientific sphere, or refers to a chimerical metaphysical speculation detached from reality and therefore seemingly harmless. Instead, it contains an irreducible political character. The encounter with Blanqui’s Eternité par les astres allows Benjamin to explore the relationship between the transformations of society within advanced capitalism and the cosmic doctrines that accompanied them. In Blanqui’s writing, in particular, the cosmos becomes the screen onto which the capitalist fair of repetition is projected. The universe thus becomes an immense showcase and the stars that populate it are transformed into a crowd of commodities whose apparent novelty imprisons the masses in an obsessive spell. Behind the celebration of progress, supported by the perennial spectacle of consumption, Blanqui glimpses, by contrast, the repetition that leads towards catastrophe. The cosmos is revealed to be sustained by an infernal cycle that leads it to sink towards the abyss. In Benjamin’s later works, the critique of the positivist doctrine of progress and the Nietzschean doctrine of the eternal return finds a decisive foothold in Blanqui’s cosmic sentence. At the same time, however, Benjamin recognises the surrender that closes Blanqui’s work as a further bewitching phantasmagoria to which it is necessary to react by unlocking the revolutionary chance that dwells in every moment of history. The concept of revolution itself is thus rethought by Benjamin through the original recovery of the link that this term has with the sphere of astronomy.

Il concetto di cosmo si presenta come un costrutto asettico quando viene utilizzato in ambito scientifico, oppure si riferisce a una chimerica speculazione metafisica avulsa dalla realtà e quindi apparentemente innocua. Invece, esso contiene un carattere politico irriducibile. L’incontro con Eternité par les astres di Blanqui permette a Benjamin di esplorare il rapporto tra le trasformazioni della società all’interno del capitalismo avanzato e le dottrine cosmiche che le hanno accompagnate. Nella scrittura di Blanqui, in particolare, il cosmo diventa lo schermo su cui viene proiettata la fiera capitalista della ripetizione. L’universo diventa così un’immensa vetrina e le stelle che lo popolano si trasformano in una folla di merci la cui apparente novità imprigiona le masse in un incantesimo ossessivo. Dietro la celebrazione del progresso, sostenuta dallo spettacolo perenne del consumo, Blanqui intravede, per contrasto, la ripetizione che conduce alla catastrofe. Il cosmo si rivela sostenuto da un ciclo infernale che lo porta a sprofondare verso l’abisso. Nelle opere successive di Benjamin, la critica alla dottrina positivista del progresso e alla dottrina nietzschiana dell’eterno ritorno trova un punto d’appoggio decisivo nella condanna cosmica di Blanqui. Allo stesso tempo, però, Benjamin riconosce la resa che chiude l’opera di Blanqui come un’ulteriore fantasmagoria ammaliante alla quale è necessario reagire sbloccando la possibilità rivoluzionaria che alberga in ogni momento della storia. Il concetto stesso di rivoluzione viene così ripensato da Benjamin attraverso l’originale recupero del legame che questo termine ha con la sfera dell’astronomia.

Paolo Godani
La natura delle cose singolari in Spinoza

Abstract

To consider Spinoza a nominalist is a commonplace widespread among scholars. Nevertheless, it is wrong. Not just because Spinoza is without a doubt a realist with regard to a certain sort of universal notions (attributes, for example), but also because the essences of finite modes (res particulares or singulares) are not reducible to individual essences. The thesis I would like to support in this paper is this: the essences of finite modes are neither general nor individual, but “singular”.

Considerare Spinoza un nominalista è un luogo comune diffuso tra gli studiosi. Tuttavia, è sbagliato. Non solo perché Spinoza è senza dubbio un realista per quanto riguarda un certo tipo di nozioni universali (gli attributi, ad esempio), ma anche perché le essenze dei modi finiti (res particulares o singulares) non sono riducibili a essenze individuali. La tesi che vorrei sostenere in questo articolo è la seguente: le essenze dei modi finiti non sono né generali né individuali, ma “singolari”.

Iacopo Chiaravalli
Il sole al tramonto: Brecht nelle tesi Sul concetto di storia di Benjamin

Abstract

The essay aims to show the importance of Brecht’s theory of epic theatre for Benjamin’s reshape of historical cognition in On the Concept of History. Brecht’s influence on Benjamin is usually restricted to works such as The Author as Producer or The Work of Art in the Age of Its Technological Reproducibility. On the contrary, I argue that Benjamin makes use of typical Brechtian elements in strategic conceptual passages of his challenging new version of the historical knowledge. This situation can be evident, like in Thesis VII where Benjamin assimilates Brecht’s critics against the Einfühlung as core of the traditional theatre. Otherwise, we find Brechtian references in other central passages. The most important is Thesis III where Benjamin articulates Brecht’s concept of citation as a way to rethink the relation between the present and the past. The citation of gesture in Brecht’s theatre points out the possibility to free an element from its starting condition. In this sense, Brechtian citation could be taken as a model for a free relationship with the tradition. In Brecht’s strategy Benjamin discovers the elements for a new concept of history. The article ends pointing out the structural difference between Benjamin and Brecht on the notion of interruption as source of the dialectical understanding of historical reality.

Il saggio intende mostrare l’importanza della teoria del teatro epico di Brecht per il rimodellamento della cognizione storica di Benjamin in Sul concetto di storia. L’influenza di Brecht su Benjamin è solitamente limitata a opere come L’autore come produttore o L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Al contrario, sostengo che Benjamin fa uso di elementi tipicamente brechtiani in passaggi concettuali strategici della sua impegnativa nuova versione della conoscenza storica. Questa situazione può essere evidente, come nella Tesi VII, dove Benjamin assimila le critiche di Brecht contro l’Einfühlung come nucleo del teatro tradizionale. Diversamente, troviamo riferimenti brechtiani in altri passaggi centrali. Il più importante è la Tesi III, dove Benjamin articola il concetto di citazione di Brecht come un modo per ripensare la relazione tra presente e passato. La citazione del gesto nel teatro di Brecht indica la possibilità di liberare un elemento dalla sua condizione di partenza. In questo senso, la citazione brechtiana potrebbe essere presa a modello di un rapporto libero con la tradizione. Nella strategia di Brecht Benjamin scopre gli elementi per un nuovo concetto di storia. L’articolo si conclude sottolineando la differenza strutturale tra Benjamin e Brecht sulla nozione di interruzione come fonte della comprensione dialettica della realtà storica.


Thaumàzein
Vol. 10 No. 1 (2022)

Table of Contents

Kairos e Apparenza

Kairos and Appearance

Kairos and appearance are two rich notions, both from a linguistic and a conceptual point of view: unavoidable in philosophical reflection, they also represent fundamental crossroads of every human life, given that the “flourishing” of human life depends on grasping the opportune moment that requires to be expected but also realized. These two notions are called upon to work as a pair, as the contributions contained in this volume show from various points of view. Moreover, the same kairos is what stands in time, but it is also what has a spatial manifestation, and therefore “appears”, revealing itself, together, as “right time” and as “right space”, as shown by the Latin term occasio, which indicates what falls in front of us in an unexpected way and which therefore represents a visible manifestation of the kairos.

Kairos e apparenza sono due nozioni ricche, sia dal punto di vista linguistico che concettuale: imprescindibili nella riflessione filosofica, rappresentano anche crocevia fondamentali di ogni vita umana, dato che la “fioritura” della vita umana dipende dal cogliere il momento opportuno che richiede di essere atteso ma anche realizzato. Queste due nozioni sono chiamate a lavorare in coppia, come mostrano da diversi punti di vista i contributi contenuti in questo volume. Inoltre, lo stesso kairos è ciò che sta nel tempo, ma è anche ciò che ha una manifestazione spaziale, e quindi “appare”, rivelandosi, insieme, come “giusto tempo” e come “giusto spazio”, come dimostra il termine latino occasio, che indica ciò che ci cade davanti in modo inaspettato e che quindi rappresenta una manifestazione visibile del kairos.

Arianna Fermani: Introduzione. «Sono il Momento opportuno, signore di ogni cosa». Riflessioni introduttive su pieghe e intrecci di καιρóς e apparenza

Stefano Maso
Il kairos come occasione di mettersi alla prova

Abstract

Once the etymological meaning of kairos has been analyzed, it is a question of grasping its value with respect to the more general conception of time and the instant, so that we can better define the theory of acting and deciding in the Greek and Roman world. The comparison is above all with Aristotle. Then we move on to probe the relationship between kairos and kindunos: a direct connection between risk and decision-making will emerge. The case of Phaeton is analyzed, starting with Seneca’s De providentia. Hence, here is the figure of the Stoic sapiens facing the moment of choosing the opportune time for death. The theme of courage and the role of phronesis are evoked, to define the way in which the responsibility of the subject comes into play in front of the kairos.

Una volta analizzato il significato etimologico di kairos, si tratta di coglierne la valenza rispetto alla concezione più generale del tempo e dell’istante, cosicché sia possibile definire meglio la teoria dell’agire e del decidere nel mondo greco e romano. Il confronto è anzitutto con Aristotele. Quindi si passa a sondare la relazione tra kairos e kindunos: si profila una connessione diretta tra rischio e volontà decisionale. È analizzato il caso di Fetonte, prendendo lo spunto dal De providentia di Seneca. Quindi, ecco la figura del sapiens stoico di fronte al momento di scegliere il momento opportuno per la morte. Sono evocati il tema del coraggio e il ruolo di phronesis, per definire il modo in cui di fronte al kairos entra in campo la responsabilità del soggetto.

Enrico Maria Ariemma
“All’apparir del vero”: la sfida del visibile, la cattura del bene. Curvature linguistiche e codificazioni letterarie

Abstract

This paper aims to verify specific points of intersections and declinations of the words kairòsoccasio in the transit from the Greek world to the Latin world. Reconnaissance is performed through a sequence of poetic and philosophical texts. The analysis moves crossing practical wisdom, prudence, and ethical measure, enhancing the intersections with fundamental concepts such as phronesis or prudentia meeting among other writers such as Homer, Hesiod, Cicero, Horace, Ovid.

Questo paper si propone di verificare specifici punti di intersezione e declinazione delle parole kairòsoccasio nel transito dal mondo greco a quello latino. La ricognizione avviene attraverso una sequenza di testi poetici e filosofici. L’analisi si muove attraversando la saggezza pratica, la prudenza e la misura etica, valorizzando le intersezioni con concetti fondamentali come la phronesis o la prudentia che si incontrano tra altri autori come Omero, Esiodo, Cicerone, Orazio, Ovidio.

Arianna Fermani
“All’apparir del vero”: la sfida del visibile, la cattura del bene. Declinazioni filosofiche e rifrazioni concettuali

Abstract

This paper aims to cross some of the linguistic and conceptual crossroads of the rich notion of καιρός, examined in its connection with the topic of appearance. After identifying a first fundamental distinction between the “spatial dimension” and the “temporal dimension” of the καιρός, we focus on the intertwining between καιρός, speed and slowness; on the multiple connections between καιρός, good and just measure, on the responsibility of appearance and on the need to grasp the καιρός for the realization of a good and happy life.

Questo articolo si propone di attraversare alcuni dei crocevia linguistici e concettuali della ricca nozione di καιρός, esaminata nella sua connessione con il tema dell’apparenza. Dopo aver individuato una prima distinzione fondamentale tra la “dimensione spaziale” e la “dimensione temporale” del καιρός, ci si sofferma sull’intreccio tra καιρός, velocità e lentezza; sulle molteplici connessioni tra καιρός, misura buona e giusta, sulla responsabilità dell’apparire e sulla necessità di cogliere il καιρός per la realizzazione di una vita buona e felice.

Alessandro Stavru
Il manifestarsi del daimonion di Socrate: kairos o tyche?

Abstract

Socrates’ daimonion manifests itself in very peculiar ways. On the one hand, it appears as tyche, a chance over which Socrates has no control; on the other hand, it acts as kairos, i.e. the “right moment” a specific action has to be undertaken or avoided. The daimonion is capable of directing the choices and actions not only of Socrates, but also of his friends, companions and fellow citizens. This chapter shows that the daimonion appears in each and every critical moment of Socrates’ educational activity: it is thanks to its intervention that Socrates is able to perform his elenctic inquiry and thus make his interlocutors better. The appearance of the daimonion enables Socrates to carefully pick his friends and associates; it thus brings about Socratic synousia, i.e. that kind of “company” that can develop into dialogical activity.

Il daimonion di Socrate si manifesta in modi molto particolari. Da un lato, appare come tyche, una casualità su cui Socrate non ha alcun controllo; dall’altro, agisce come kairos, cioè il “momento giusto” in cui un’azione specifica deve essere intrapresa o evitata. Il daimonion è in grado di orientare le scelte e le azioni non solo di Socrate, ma anche dei suoi amici, compagni e concittadini. Questo capitolo mostra che il daimonion compare in ogni momento critico dell’attività educativa di Socrate: è grazie al suo intervento che Socrate è in grado di svolgere la sua indagine elenctica e quindi di rendere migliori i suoi interlocutori. L’apparizione del daimonion permette a Socrate di scegliere con cura i suoi amici e collaboratori; si realizza così la synousia socratica, cioè quel tipo di “compagnia” che può svilupparsi in attività dialogica.

Lucia Palpacelli
Aisthesis come “scienza del particolare”: la sensazione nel De anima di Aristotele

Abstract

This paper aims to explore the theory of sensation explained by Aristotle in the second book of De anima, also studying topics related to his gnosiological foundations, as they are shown in the explanatory and ontological scheme of act and potency. A reference methodological context sets De anima among Aristotelian physical works. It also underlines the specific value that both sensation and most of all phenomena assume in evaluating the Aristotelian physical science. Starting from this context the analysis develops in three steps:

1. searching a definition of the process of “having sensation” that is explained as a potency that becomes act, but needs some terminological and conceptual clarifications about words like act, potency and undergoing;
2. finding role of the sensible object in the process of aisthesis;
3. mentioning necessity of the medium in the sensation.

Il presente lavoro si propone di esplorare la teoria della sensazione spiegata da Aristotele nel secondo libro del De anima, studiando anche temi legati ai suoi fondamenti gnoseologici, così come si manifestano nello schema esplicativo e ontologico di atto e potenza. Un contesto metodologico di riferimento colloca il De anima tra le opere fisiche aristoteliche. Esso sottolinea anche il valore specifico che la sensazione e soprattutto i fenomeni assumono nella valutazione della scienza fisica aristotelica. A partire da questo contesto, l’analisi si sviluppa in tre fasi:

1. cercare una definizione del processo di “avere sensazione” che si spiega come una potenza che diventa atto, ma necessita di alcuni chiarimenti terminologici e concettuali su parole come atto, potenza e subire;
2. trovare il ruolo dell’oggetto sensibile nel processo di aisthesis;
3. menzione della necessità del mezzo nella sensazione.

Giuseppe Feola
Temporalità e kairos come caratteri costitutivi della vita biologica nel pensiero di Aristotele

Abstract

According to Aristotle, living beings are a subgenus of the macro-genus of natural beings (Phys. II 1, 192b9-10). Natural beings (he thinks) bear an essential relation to change: their nature-essence is an intrinsic principle of change (Phys. II 1). Since change and movement must necessarily occur in time (Phys. IV), the crucial connection between movement and essence(s) of natural beings implies an equally crucial connection between time and these essences. While much has been written about the relation of natural beings to time in Aristotle’s thought, relatively few attention has been paid to the way in which temporality shapes the ways of being of living beings. I will here ask the following question: which kind of relation to time is presupposed, for living beings, by their essences? My hypothesis is that what distinguishes the living relation to temporality from non-living one is that the living one is ruled by a form which dictates a necessary succession of phases, from birth to death. Each phase is a focal moment of the life of the living being: i.e. of the manifestation and appearance, in the concrete life, of the various temporal aspects of its essence, each in its proper moment (kairòs).

Secondo Aristotele, gli esseri viventi sono un sottogenere del macrogenere degli esseri naturali (Phys. II 1, 192b9-10). Gli esseri naturali (secondo lui) hanno una relazione essenziale con il cambiamento: la loro natura-essenza è un principio intrinseco del cambiamento (Phys. II 1). Poiché il cambiamento e il movimento devono necessariamente avvenire nel tempo (Phys. IV), la connessione cruciale tra il movimento e le essenze degli esseri naturali implica una connessione altrettanto cruciale tra il tempo e queste essenze. Mentre si è scritto molto sulla relazione degli esseri naturali con il tempo nel pensiero di Aristotele, si è prestata relativamente poca attenzione al modo in cui la temporalità modella i modi di essere degli esseri viventi. La domanda che mi pongo è la seguente: quale tipo di rapporto con il tempo è presupposto, per gli esseri viventi, dalla loro essenza? La mia ipotesi è che ciò che distingue il rapporto dei viventi con la temporalità da quello dei non viventi è che in questi ultimi la temporalità è governata da una forma che detta una successione necessaria di fasi, dalla nascita alla morte. Ogni fase è un momento focale della vita dell’essere vivente: cioè della manifestazione e dell’apparizione, nella vita concreta, dei vari aspetti temporali della sua essenza, ciascuno nel suo momento proprio (kairòs).

David Roochnik
In defense of doxa: reflections on Plato’s Charmides

Abstract

The paper argues that in the Charmides Plato offers a philosophical defense of doxa (“opinion”). The key passage is 158e7-159a6. There Socrates says to Charmides, “If temperance (σωφροσύνη) is present in you, you will be able to form some opinion (δοξάζειν) about it. For surely it is necessary that, if it is present, it will provide you with some awareness (αἴσθησιν) on the basis of which you would have an opinion (δόξα) about what temperance is, and what sort of thing it is.” To formulate a genuine opinion about what temperance, or any other virtue, is—and thus genuinely to participate in a Socratic dialogue—one must first look within and examine one’s own internal “awareness” of it. Doing so requires courage for it exposes the interlocutor to the possibility of being refuted by Socrates. But failure to do so is even worse for it reveals a lack of “care” about oneself and thereby begins a process of self-flight whose outcome, as it was for the (historical) Charmides, can be catastrophic.

Il saggio sostiene che nel Carmide Platone offre una difesa filosofica della doxa (“opinione”). Il passaggio chiave è il 158e7-159a6. Qui Socrate dice a Carmide: “Se la temperanza (σωφροσύνη) è presente in te, sarai in grado di formarti un’opinione (δοξάζειν) su di essa. Infatti, è sicuramente necessario che, se è presente, ti fornisca una qualche consapevolezza (αἴσθησιν) sulla base della quale tu possa avere un’opinione (δόξα) su cosa sia la temperanza e che tipo di cosa sia”. Per formulare un’opinione veritiera su cosa sia la temperanza, o qualsiasi altra virtù, – e quindi per partecipare genuinamente a un dialogo socratico – bisogna innanzitutto guardarsi dentro ed esaminare la propria “consapevolezza” interna di essa. Questo richiede coraggio perché espone l’interlocutore alla possibilità di essere confutato da Socrate. Ma non farlo è ancora peggio, perché rivela una mancanza di “cura” per se stessi e dà così inizio a un processo di fuga da se stessi il cui esito, come per lo (storico) Carmide, può essere catastrofico.

Daniele Valentini
Expanding the perspectives on affective scaffoldings: user-resource interactions and mind-shaping in digital environments

Abstract

The debate in 4e approaches around scaffolded affectivity has yielded two models: user-resource interactions and mind-shaping. The former sees affective states as the result of the active manipulations performed by individuals on their environments. The latter examines human affectivity as shaped by the pressures exerted by socio-material contexts on individuals. Despite recognizing the interconnection between the two models in scaffolding affective experiences, the existing literature has mostly sidelined how they interrelate in online environments. In this paper, I argue that considering 1) the pace and infrastructure on which online interactions take place; and 2) the socio-material character of the devices we use to access online platforms (e.g., smartphones), affectivity, in digital environments, unfolds along a continuous alternation (and integration) of user-resource interactions and mind-shaping phases. First, I present the user-resource interactions and mind invasion models adding a recently introduced mind-shaping perspective that includes and expands the limited analytical scope of mind invasion. Second, I examine the mind-shaping influence of digital platforms on which users’ affective engagements are harnessed within a programmed sociality made of interfaces, algorithms, online groups and other users. Third, I present smartphones qua hybrid artifacts that allows users to permanently micromanage their interactions online while leaving them open to the mind-shaping effects of social media. Last, I examine Alt-Right echo chambers as digital structures in which affectivity is situated along an alternation (and integration) of user-resource interactions and mind-shaping moments.

Il dibattito sugli approcci 4e all’affettività improntata all’impalcatura ha prodotto due modelli: le interazioni utente-risorsa e il mind-shaping. Il primo vede gli stati affettivi come il risultato delle manipolazioni attive effettuate dagli individui sui loro ambienti. Il secondo esamina l’affettività umana come modellata dalle pressioni esercitate dai contesti socio-materiali sugli individui. Nonostante il riconoscimento dell’interconnessione tra i due modelli nella creazione di esperienze affettive, la letteratura esistente ha per lo più trascurato il modo in cui essi interagiscono negli ambienti online. In questo articolo sostengo che, considerando 1) il ritmo e l’infrastruttura in cui avvengono le interazioni online; e 2) il carattere socio-materiale dei dispositivi che utilizziamo per accedere alle piattaforme online (ad esempio, gli smartphone), l’affettività, negli ambienti digitali, si sviluppa lungo una continua alternanza (e integrazione) di interazioni utente-risorsa e fasi di formazione della mente. In primo luogo, presento i modelli delle interazioni utente-risorsa e dell’invasione della mente, aggiungendo una prospettiva di mind-shaping di recente introduzione che include ed espande la limitata portata analitica dell’invasione della mente. In secondo luogo, esamino l’influenza mind-shaping delle piattaforme digitali, sulle quali gli impegni affettivi degli utenti sono sfruttati all’interno di una socialità programmata fatta di interfacce, algoritmi, gruppi online e altri utenti. In terzo luogo, presento gli smartphone come artefatti ibridi che consentono agli utenti di gestire in modo permanente le loro interazioni online, lasciandoli al tempo stesso aperti agli effetti di modellazione mentale dei social media. Infine, esamino le camere dell’eco dell’Alt-Right come strutture digitali in cui l’affettività è situata lungo un’alternanza (e un’integrazione) di interazioni utente-risorsa e momenti di formazione della mente.


Thaumàzein
Volume 9, Issue 2, 2021

Table of Contents

Helmuth Plessner. Philosophy and Life

Helmuth Plessner’s thought is widely known in Italy, where today most of his work is translated and analysed by many experts, who underline the depth and novelty of his positions. This monographic issue dedicated to him gathers original contributions articulated along different paths, mainly focusing on Plessner’s effort to coordinate philosophical and scientific research on the nature of the human being in a multiform form.

Il pensiero di Helmuth Plessner è ampiamente conosciuto in Italia, dove oggi gran parte della sua opera è tradotta e analizzata da numerosi esperti, che sottolineano la profondità e la novità delle sue posizioni. Questo numero monografico a lui dedicato raccoglie contributi originali articolati lungo percorsi diversi, incentrati principalmente sullo sforzo di Plessner di coordinare in forma multiforme la ricerca filosofica e scientifica sulla natura dell’essere umano.

Vallori Rasini: Introduzione a Filosofia e vita

Carola Dietze
Education in Reality. Helmuth Plessner’s Contribution to the Intellectual Foundation of the Federal Republic of Germany

Abstract

To what extent were intellectuals responsible for the Nazi power grab, and how could they contribute to a new beginning in Germany after 1945? Numerous scholars have debated these questions in relation to right-wing academics. This article places the intellectual development of the “half-Jew” and emigrant Helmuth Plessner in the context of such debates. As a man of the political middle who cautioned against political extremism on both the right and left all his life, Plessner was a rare breed in twentieth-century Germany. In contrast to right-wing intellectuals who advocated for the «Third Reich», Plessner did not undergo processes of self-mobilization and disillusionment, nor did he have to deal with the issue of his own guilt. Therefore, in his case the question is rather what conclusions he drew from his experience of National Socialism and the Second World War and what effects this had on his thinking and actions. The article shows there was one goal in Plessner’s political philosophy as a decisive and ever-present concern: the education of the German bourgeoisie to deal with the world as it really was, that is, with reality (Erziehung zur Wirklichkeit) and away from utopian thinking. Apart from that, there were shifts (rather than ruptures or profound revisions) in Plessner’s thinking and actions: Around 1935, Plessner gave up both the idea of a German mission and his elite habits of the years around 1930. Instead, he transformed himself into an internationally effective scholar who consciously took on the role of a public intellectual.

In che misura gli intellettuali sono stati responsabili della presa di potere nazista e come hanno potuto contribuire a un nuovo inizio della Germania dopo il 1945? Numerosi studiosi hanno discusso queste domande in relazione agli accademici di destra. Questo articolo colloca lo sviluppo intellettuale del “mezzo ebreo” ed emigrato Helmuth Plessner nel contesto di tali dibattiti. Come uomo di centro politico che per tutta la vita ha messo in guardia dall’estremismo politico sia di destra che di sinistra, Plessner era un caso raro nella Germania del XX secolo. A differenza degli intellettuali di destra che sostenevano il “Terzo Reich”, Plessner non ha subito processi di auto-mobilitazione e disillusione, né ha dovuto affrontare la questione della propria colpevolezza. Pertanto, nel suo caso la questione è piuttosto quali conclusioni abbia tratto dalla sua esperienza del nazionalsocialismo e della Seconda guerra mondiale e quali effetti abbia avuto sul suo pensiero e sulle sue azioni. L’articolo mostra che nella filosofia politica di Plessner c’era un obiettivo decisivo e sempre presente: l’educazione della borghesia tedesca a confrontarsi con il mondo come era realmente, cioè con la realtà (Erziehung zur Wirklichkeit) e ad allontanarsi dal pensiero utopico. A parte questo, ci furono cambiamenti (piuttosto che rotture o profonde revisioni) nel pensiero e nelle azioni di Plessner: intorno al 1935, Plessner abbandonò sia l’idea di una missione tedesca sia le abitudini elitarie degli anni intorno al 1930. Si trasformò invece in uno studioso di livello internazionale che assunse consapevolmente il ruolo di intellettuale pubblico.

Joachim Fischer
«Stufen des Organischen und der Mensch» (1928) und «Macht und menschliche Natur» (1931): Über ein vermeidbares Missverständnis in der Plessner-Interpretation

Abstract

For some time there has been a certain philosophical and sociological hype about the Power and the Human Nature. An Attempt at an Anthropology of the Historical World View (Political Anthropology) within Plessner scholarship, which portrays this book, next to the Levels of the Organic Life and the Human, as a «second anthropological key work». This will be rejected here for a number of reasons. The argument will be set up in four steps: Firstly, we will sketch the genesis of Plessner’s philosophical-anthropological thinking from the beginning of the 1920s to the beginning of the 1930s – from the Levels (1928) to the Political Anthropology (1931). Secondly, we will rehearse the recent tendency of a certain type of Plessner research since the 1990s which attributes to the Political Anthropology its own and even superior status in relation to the Levels-book of 1928. Thirdly, from a philological point of view, Plessner himself, at a later stage, did not regard the Political Anthropology as exceptional within his body of work. Fourthly, philosophically, a systematic investigation can also show that the Political Anthropology as an «attempt of an anthropology of a historical world view» is all in all nothing more than an elaboration of the theory of the inescapable historicity and language diversity of the human being, a theory already derived from the second «basic anthropological law» of the «mediated immediacy» in the Levels-book. The «principle of inscrutability», which is explicated in the Political Anthropology from 1931, follows, in Plessner’s own logic, from the «anthropological basic law» of the «mediated immediacy» from 1928. The central thesis is the following: the whole premise of the preference of the Political Anthropology of a certain type of Plessner interpretation is wrong: there is no second anthropological key work of Plessner, but the foundation set out in the Levels of the Organic and the Human which argues in a natural philosophical manner is, and remains, Plessner’s philosophical-anthropological key work to which he relates all his other writings, including the later writings such as the Political Anthropology.

Da qualche tempo c’è un certo clamore filosofico e sociologico intorno al Potere e la natura umana. Per un’antropologia della visione storica del mondo (Antropologia politica) all’interno degli studi di Plessner, che dipinge questo libro, accanto a I gradi dell’organico e l’uomo, come una “seconda opera cardine dell’antropologia”. In questa sede si respingerà tale tesi per una serie di motivi. L’argomentazione si articolerà in quattro fasi: in primo luogo, si tratteggerà la genesi del pensiero filosofico-antropologico di Plessner dall’inizio degli anni Venti all’inizio degli anni Trenta – da I gradi (1928) all’Antropologia politica (1931). In secondo luogo, si illustrerà la tendenza recente di un certo tipo di ricerca plessneriana, a partire dagli anni Novanta, che attribuisce all’Antropologia politica un proprio status addirittura superiore rispetto a I gradi del 1928. In terzo luogo, da un punto di vista filologico, lo stesso Plessner, in una fase successiva, non considerava l’Antropologia politica come eccezionale all’interno del suo corpus di opere. In quarto luogo, dal punto di vista filosofico, un’indagine sistematica può anche mostrare che l’Antropologia politica come “tentativo di un’antropologia di una visione storica del mondo” non è altro che un’elaborazione della teoria della storicità ineludibile e della diversità linguistica dell’essere umano, una teoria già derivata dalla seconda “legge antropologica fondamentale” dell’“immediatezza mediata” ne I gradi. Il “principio di imperscrutabilità”, esplicitato nell’Antropologia politica del 1931, deriva, nella logica propria di Plessner, dalla “legge antropologica fondamentale” dell’“immediatezza mediata” del 1928. La tesi centrale è la seguente: l’intera premessa della preferenza dell’Antropologia politica per un certo tipo di interpretazione plessneriana è sbagliata: non esiste una seconda opera cardine antropologica di Plessner, ma il fondamento esposto ne I gradi dell’organico e l’uomo, che argomenta nei termini della filosofia della natura, è e rimane l’opera cardine della filosofia antropologica di Plessner, a cui egli riferisce tutti gli altri scritti, compresi quelli successivi come l’Antropologia politica.

Helena Hock
Der eigene Tod und das menschliche Miteinander – gelingende Sterbebegleitung vor dem Hintergrund der philosophischen Anthropologie Helmuth Plessners

Abstract

This paper aims to show to which extent Helmuth Plessner’s philosophical anthropology proves beneficial for the topical issue of succeeding care for dying people. Modern western end-of-life care has been shaped by the hospice movement under Cicely Saunders. Its ideals were the openness to conversations about dying and the recognition of the individuality of the dying person. In a socio-cultural context that focuses on the idea of man as an autonomous, consciously acting subject, these ideals tend to be projected on the dying person and thereby may turn into problematic normative guidelines about a proper way to die. In contrast, referring to Helmuth Plessner’s conception of the human being, a right way of human dying is not predefined yet without denying the possibility of a succeeding end-of-life care. As beings with ‘exzentrischer Positionalität’, humans are essentially characterised by their uncertain position that eludes any determining definitions. Self-awareness and the capability for reflection are merely a possibility for human beings and never a certainty. Furthermore, the human being features both an actively acting and a passively experiencing side – also with respect to how he or she succeedingly deals with his or her own dying. With Plessner’s concept of the ‘Mitwelt’ in mind, the task of end-of-life care is to take on functions for the dying person in solidarity with him or her and at the same time to recognise his or her otherness.

Questo articolo si propone di mostrare in che misura l’antropologia filosofica di Helmuth Plessner si rivela benefico per la questione attuale dell’assistenza ai morenti. La moderna assistenza occidentale di fine vita è stata plasmata dal movimento hospice di Cicely Saunders. I suoi ideali erano l’apertura alle conversazioni sul morire e il riconoscimento dell’individualità della persona morente. In un contesto socio-culturale incentrato sull’idea dell’uomo come soggetto autonomo che agisce in modo cosciente, questi ideali tendono a essere proiettati sulla persona morente e quindi possono trasformarsi in linee guida normative problematiche sul modo corretto di morire. Al contrario, facendo riferimento alla concezione dell’essere umano di Helmuth Plessner, un modo corretto del morire umano non è ancora predefinito, senza negare la possibilità di un’assistenza di fine vita efficace. In quanto esseri con “exzentrischer Positionalität”, gli esseri umani sono essenzialmente caratterizzati dalla loro posizione incerta che sfugge a qualsiasi definizione determinante. L’autocoscienza e la capacità di riflessione sono solo una possibilità per gli esseri umani e mai una certezza. Inoltre, l’essere umano presenta sia un lato che agisce attivamente sia un lato che esperisce passivamente, anche per quanto riguarda il modo in cui riesce ad affrontare il proprio morire. Tenendo presente il concetto di “Mitwelt” di Plessner, il compito dell’assistenza di fine vita è quello di assumere funzioni per la persona morente in solidarietà con ella, e allo stesso tempo di riconoscere la sua alterità.

Hans-Peter Krüger
Von der verspäteten Nation der Deutschen zur verspäteten Föderation Europas. Helmuth Plessner über die Verführbarkeit bürgerlichen Geistes im Zeitalter hochkapitalistischer Lebensmacht

Abstract

Plessner did not just criticize the democratic deficiencies in German history, in comparison with Western democracies, for its future as a delayed nation. He also at the same time brought out the federalist potentials within German history for a United States of Europe. Above all, he arrived at a new understanding of global history: European and US-American history give rise to High Capitalism, representing an economic (rather than political or spiritual and cultural) integration of all areas of life and action. These high-capitalist life-powers can dissolve themselves from the global West and be taken on by the global East in Asia. The relative decline of the global West and the relative rise of Asia were accelerated through the globalization of US-American neo-liberalism since the 1990ies. In view of the danger that high capitalism can be combined with a right-wing dictatorship in the West or a left-wing dictatorship in the East, Europe must reinforce its civilizational role between the USA and China. Measured against this responsibility, the federation of Europe is delayed but has at least finally taken the right direction with the Green New Deal.

Plessner non si è limitato a criticare le carenze democratiche della storia tedesca, rispetto alle democrazie occidentali, per il suo futuro di nazione in ritardo. Allo stesso tempo, ha fatto emergere le potenzialità federaliste della storia tedesca per gli Stati Uniti d’Europa. Soprattutto, è arrivato a una nuova comprensione della storia globale: la storia europea e quella statunitense danno origine all’Alto Capitalismo, che rappresenta un’integrazione economica (piuttosto che politica o spirituale e culturale) di tutte le aree della vita e dell’azione. Queste potenze vitali alto-capitaliste possono dissolversi dall’Occidente globale ed essere assunte dall’Oriente globale in Asia. Il relativo declino dell’Occidente globale e la relativa ascesa dell’Asia sono stati accelerati dalla globalizzazione del neoliberismo statunitense a partire dagli anni Novanta. Di fronte al pericolo che l’alto capitalismo si combini con una dittatura di destra in Occidente o con una dittatura di sinistra in Oriente, l’Europa deve rafforzare il suo ruolo di civiltà tra gli Stati Uniti e la Cina. A fronte di questa responsabilità, la federazione europea è in ritardo, ma almeno ha finalmente preso la giusta direzione con il Green New Deal.

Kilian Lavernia
Vida y distancia en Límites de la comunidad

Abstract

This paper reappraises Helmuth Plessner’s early sociophilosophical and anthropological understanding of life and distance, as thematically shown in his important philosophy of the soul in The Limits of Community (1924). Firstly, we will present the specific nature and dynamic of the soul’s life, i.e., the ambiguous character of the psychic structure that expresses through individuation and by which we have to consider an inherent risk and vulnerability to human beings in a both theoretical and practical sense. Secondly, we will discuss Plessner’s consequent necessity of distance, his deduction and foundation as generated in society and public sphere, since spatiality of modern life and his political-anthropological implications in terms of radicalism require an urgent understanding of those reflexive, protective mechanisms that belong to the specific human form of life.

Il presente lavoro rivaluta la comprensione socio-filosofica e antropologica della vita e della distanza nel giovane Helmuth Plessner, come tematicamente mostrato nella sua importante filosofia dell’anima in I limiti della comunità (1924). In primo luogo, presenteremo la natura specifica e la dinamica della vita dell’anima, cioè il carattere ambiguo della struttura psichica che si esprime attraverso l’individuazione e con la quale dobbiamo considerare un rischio e una vulnerabilità inerenti all’essere umano in senso sia teorico che pratico. In secondo luogo, discuteremo la conseguente necessità di distanza di Plessner, la sua deduzione e il suo fondamento come generato nella società e nella sfera pubblica, poiché la spazialità della vita moderna e le sue implicazioni politico-antropologiche in termini di radicalismo richiedono una comprensione urgente di quei meccanismi riflessivi e protettivi che appartengono alla specifica forma di vita umana.

Massimo Mezzanzanica
Esperienza, intuizione, espressione. L’antropologia filosofica di Plessner tra filosofia della vita e logica ermeneutica

Abstract

The article tries to show the importance of the critical discussion of the different forms of philosophy of life in Plessner’s philosophical anthropology, which is aimed at outlining a vision of life that is different from both evolutionary and idealistic conceptions. Plessner distinguishes Bergson’s and Spengler’s intuitionistic philosophies of life from Dilthey’s philosophy of life, which considers life as historical life, accessible to understanding through the mediation of human expressions. A relevant aspect of Dilthey’s conception is his attempt to connect philosophy with experience, attributing to experience a different meaning from that which it assumes in the natural sciences. Plessner refers to Georg Misch’s interpretation of Dilthey’s thought, deriving from it the need to establish a close relationship between hermeneutical logic, philosophy of nature, philosophical anthropology and the foundation of the human sciences. In this perspective, the analysis of the phenomenon of expression in all its aspects, including bodily expressions, becomes the keystone of an analysis of the human that is able to connect the natural and spiritual dimensions, and which recognizes and preserves the openness and indeterminacy of the human being, beyond the opposing one-sidedness of empiricism and rationalism.

L’articolo cerca di mostrare l’importanza della discussione critica delle diverse forme di filosofia della vita nell’antropologia filosofica di Plessner, che mira a delineare una visione della vita diversa dalle concezioni evoluzionistiche e idealistiche. Plessner distingue le filosofie della vita intuizionistiche di Bergson e Spengler dalla filosofia della vita di Dilthey, che considera la vita come vita storica, accessibile alla comprensione attraverso la mediazione delle espressioni umane. Un aspetto rilevante della concezione di Dilthey è il suo tentativo di collegare la filosofia all’esperienza, attribuendo all’esperienza un significato diverso da quello che assume nelle scienze naturali. Plessner fa riferimento all’interpretazione del pensiero di Dilthey avanzata da Georg Misch, ricavandone la necessità di stabilire una stretta relazione tra logica ermeneutica, filosofia della natura, antropologia filosofica e fondazione delle scienze umane. In questa prospettiva, l’analisi del fenomeno dell’espressione in tutti i suoi aspetti, comprese le espressioni corporee, diventa la chiave di volta di un’analisi dell’umano che sia in grado di collegare la dimensione naturale e quella spirituale, e che riconosca e preservi l’apertura e l’indeterminatezza dell’essere umano, al di là della contrapposta unilateralità dell’empirismo e del razionalismo.

Olivia Mitscherlich-Schönherr
Staunen-Lernen angesichts der menschlichen Würde. Helmuth Plessners transformatives Philosophieren

Abstract

In my essay, I advocate a phenomenological-therapeutic reading of Helmuth Plessner’s major work Die Stufen des Organischen und der Mensch. I interpret Die Stufen as a text that does not present universal theories, but opens up a philosophical learning process: no universal theories about the nature of physical things, living things, plants, animals, and humans, but a process in which the experience of these same ‘double-aspect’ entities is transformed. Plessner initiates this transformation process with the means of phenomenological epoché and reduction: by reflecting and criticizing in several stages socio-cultural ‘sediments’ that permeate and limit the experience of these ‘double-aspect’ entities. This process of transformation gains philosophical relevance through its orientation to interpersonal experience that human persons have of persons. In orientation to interpersonal experience, Plessner conceives a transformation process that becomes a genuinely philosophical learning process in the tension of historical bond and truth reference: a process by which the experience of person is not only changed, but perfected. This learning process gains practical-existential significance, since in its course one learns to experience persons in their dignity and to astonish at human dignity.

Nel mio saggio propongo una lettura fenomenologico-terapeutica dell’opera principale di Helmuth Plessner, Die Stufen des Organischen und der Mensch. Interpreto Die Stufen come un testo che non presenta teorie universali, ma apre un processo di apprendimento filosofico: non teorie universali sulla natura delle cose fisiche, degli esseri viventi, delle piante, degli animali e degli uomini, ma un processo in cui l’esperienza di queste stesse entità “a doppio aspetto” viene trasformata. Plessner avvia questo processo di trasformazione con i mezzi dell’epoché e della riduzione fenomenologica: riflettendo e criticando in più fasi i “sedimenti” socio-culturali che permeano e limitano l’esperienza di queste entità “a doppio aspetto”. Questo processo di trasformazione acquista rilevanza filosofica grazie al suo orientamento all’esperienza interpersonale che le persone umane hanno delle persone. Nell’orientamento all’esperienza interpersonale, Plessner concepisce un processo di trasformazione che diventa un processo di apprendimento genuinamente filosofico nella tensione del legame storico e del riferimento alla verità: un processo attraverso il quale l’esperienza della persona non solo viene cambiata, ma perfezionata. Questo processo di apprendimento acquista un significato pratico-esistenziale, poiché nel suo corso si impara a sperimentare le persone nella loro dignità e a stupirsi della dignità umana.

Claudia Nigrelli
Forme e figurazioni in Helmuth Plessner. Dalla comprensione della vita alla questione della responsabilità

Abstract

The article proposes a reading of Helmuth Plessner’s philosophical anthropology through the lens of morphology. Form, understood as a combination of static form and dynamic processes of figuration, is first of all linked to the question concerning life. At a time when life was once again central to the intellectual and scientific environment of the 20th century, divided between empiricism and apriorism, Goethe’s morphology allowed Plessner to overcome this opposition and find a unique point of view to look at the human being as both a natural and cultural being. Subsequently, the question of form is analysed in relation to the organic (Buytendijk) and to the behaviour of living beings (Buytendijk and Plessner). The concept of Grenze is then fundamental to understand how the tension between forms and figurations allows Plessner to describe the functioning of life and the emergence of the human form of life, depicted in terms of an ‘open’ form that is self-delimiting, that is, that artificially realises its own nature in a plastic way. Form thus becomes in human beings a responsibility to be realised between nature and culture, between necessity and freedom to create an infinity of expressive and cultural forms that are always different because they are contingent and historical.

L’articolo propone una lettura dell’antropologia filosofica di Helmuth Plessner attraverso la lente della morfologia. La forma, intesa come combinazione di forma statica e processi dinamici di figurazione, è innanzitutto legata alla questione della vita. In un momento in cui la vita tornava a essere centrale nell’ambiente intellettuale e scientifico del XX secolo, diviso tra empirismo e apriorismo, la morfologia di Goethe ha permesso a Plessner di superare questa opposizione e di trovare un punto di vista unico per guardare all’essere umano come essere sia naturale che culturale. Successivamente, la questione della forma viene analizzata in relazione all’organico (Buytendijk) e al comportamento degli esseri viventi (Buytendijk e Plessner). Il concetto di Grenze è poi fondamentale per comprendere come la tensione tra forme e figurazioni permetta a Plessner di descrivere il funzionamento della vita e l’emergere della forma di vita umana, rappresentata nei termini di una forma “aperta” che si auto-delimita, cioè che realizza artificialmente la propria natura in modo plastico. La forma diventa così nell’uomo una responsabilità da realizzare tra natura e cultura, tra necessità e libertà per creare un’infinità di forme espressive e culturali sempre diverse perché contingenti e storiche.

Matteo Pagan
Una leggerezza originaria. Helmuth Plessner e il concetto di Spiel

Abstract

The aim of this article is to evaluate the role that the concept of Spiel plays in Helmuth Plessner’s thought, both in his philosophical anthropology – in which, as is well known, the actor plays a leading role – and in his philosophy of life. The “victory of play over seriousness”, which Plessner stresses in his review of Buytendijk’s Wesen und Sinn des Spiels (1933), will be taken into account not only within the framework of his description of organic life, but also within the framework of his social philosophy, as it is presented in The Limits of Community (1924). Thus, in a first step, the convergence between the “originary lightness” that characterise organic life and the “ethos of grace and lightness” with which Plessner describes society in the text of 1924 will be highlighted. In a second moment, the analysis of the essay Der Mensch im Spiel (1967) will show why, according to Plessner, the human being is compelled to play. In conclusion, the particular human capacity to play with distance, which the German philosopher emphasises above all in the essays dedicated to the actor (1948) and the smile (1950), will be addressed.

L’obiettivo di questo articolo è valutare il ruolo che il concetto di Spiel svolge nel pensiero di Helmuth Plessner, sia nella sua antropologia filosofica – in cui, come è noto, l’attore svolge un ruolo di primo piano – sia nella sua filosofia di vita. La “vittoria del gioco sulla serietà”, che Plessner sottolinea nella sua recensione di Wesen und Sinn des Spiels (1933) di Buytendijk, sarà presa in considerazione non solo nell’ambito della sua descrizione della vita organica, ma anche nell’ambito della sua filosofia sociale, così come viene presentata ne I limiti della comunità (1924). In un primo momento, quindi, si evidenzierà la convergenza tra la “leggerezza originaria” che caratterizza la vita organica e l’“ethos della grazia e della leggerezza” con cui Plessner descrive la società nel testo del 1924. In un secondo momento, l’analisi del saggio Der Mensch im Spiel (1967) mostrerà perché, secondo Plessner, l’essere umano è costretto a giocare. In conclusione, si affronterà la particolare capacità umana di giocare con la distanza, che il filosofo tedesco sottolinea soprattutto nei saggi dedicati all’attore (1948) e al sorriso (1950).

Oreste Tolone
Sport and Performance Ethics in Helmuth Plessner

Abstract

Plessner’s interest in sport and play has anthropological roots. In the wake of Buytendijk, he identifies the ambivalence between the impulse towards constraint and autonomy, which characterises the playful attitude towards the world. This ambivalence is based on the relative closure to the world, on the intertwining of Weltgebundenheit and Weltoffenheit. This “relative closure” is characteristic of an eccentric being, who on the one hand has sunk into a body and on the other hand instrumentally distances himself from it. Sport, which is also etymologically rooted in play, is a symptom of an industrialised society with a disturbed relationship to the body. In fact, it guarantees bodily unity, moving dialectically between the tendency towards records and respect for rules. Today, this balance is at risk because of a tendency towards record-breaking, which is intrinsic to the ethos of sporting performance. The recovery of the passive dimension, of the bond as a link, which is proper to the game, and the parameter of health, can be a corrective, proper to the person.

L’interesse di Plessner per lo sport e il gioco ha radici antropologiche. Sulla scia di Buytendijk, egli individua l’ambivalenza tra l’impulso alla costrizione e all’autonomia, che caratterizza l’atteggiamento ludico nei confronti del mondo. Questa ambivalenza si basa sulla relativa chiusura al mondo, sull’intreccio tra Weltgebundenheit e Weltoffenheit. Questa “chiusura relativa” è caratteristica di un essere eccentrico, che da un lato è sprofondato in un corpo e dall’altro se ne allontana strumentalmente. Lo sport, che è anche etimologicamente radicato nel gioco, è un sintomo di una società industrializzata con un rapporto disturbato con il corpo. Infatti, garantisce l’unità corporea, muovendosi dialetticamente tra la tendenza al record e il rispetto delle regole. Oggi questo equilibrio è a rischio a causa della tendenza al record, intrinseca all’etica della prestazione sportiva. Il recupero della dimensione passiva, del legame come vincolo, che è proprio del gioco, e del parametro della salute, può essere un correttivo, proprio della persona.